Mario De Micheli

“Il tempo della memoria-Cronache fiorentine” libro monografico – mostra, -. Istituto degli Innocenti, Firenze 1997

Giuliano Pini ha veramente dipinto, sul filo della memoria, i fatti e le circostanze che hanno intessuto di sé le cronache fiorentine del Novecento. Egli è riuscito a rievocare sia i fatti che i personaggi più prestigiosi che a Firenze, come si dice, erano di casa: Alexander Blok, Igor Stravinskij, Rainer Maria Rilke, David Herbert Lawrence… È qualcosa che accade anche oggi. Chi può infatti pensare di non visitare questa città dove Giotto, Masaccio e Michelangelo hanno vissuto e operato? È ormai da tempo che da ogni parte del mondo, dall’Europa e dall’America, arrivano a Firenze ogni genere di pellegrini incantati. È dunque questa la vicenda che Pini ha voluto raccontare, inseguendo le orme di una città che è andata lentamente trasformandosi, coi vecchi quartieri, ma anche con le nuove strade e le nuove piazze, con un popolo che, conservando lo spirito di un tempo, è tuttavia mutato, soprat-tutto per i giovani insofferenti di tradizioni e di arcaiche abitudini.

Dovunque Firenze è presente, sono presenti i quartieri, i ponti sull’Arno e le chiese. Ogni opera vive di una suggestione che attinge verità dal mito e altrettanta verità dalla descrizione di una diretta circostanza. Ecco quindi, tra fantasmi, sogni e leggende, anche il senso concreto dell’oggettività, il senso cioè diretto, che sa descrivere una situazione reale. Tali sensi si completano a vicenda, anche se, più d’una volta, i due aspetti si confondono l’uno nell’altro: la cronaca diventa mito e il mito diventa realtà.

Dietro ogni immagine assistono i protagonisti della storia medievale e rinascimentale, i palazzi celebrati, il Duomo e il Battistero, Santa Croce e la Basilica di San Lorenzo, la chiesa di Santo Spirito e di San Miniato al Monte, il forte di Belvedere. Pini è un fiorentino purosangue, che di ogni luogo conosce anche i vicoli, percorsi sin da ragazzo. È giusto però che io dica anche quando ho avuto il mio primo incontro con lui, perché tale incontro si colora anche di accenti personali. Quando è venuto da me era un giovane uscito da non troppi anni dall’adolescenza. Aprendo la porta di casa, a Milano, me lo sono trovato davanti con un fascio di disegni sotto il braccio. Erano disegni netti, incisivi, già di una personalità definita. Avrebbe dovuto fare una mostra alla Galleria “Nuova Corrente”, sorta a Firenze qualche mese prima. In quella occasione ho scritto la mia prima presentazione su di lui. Quante altre volte ne ho scritto, seguendo le tracce delle sue esperienze? Davvero non ricordo, ma ora eccomi qui, ancora una volta, a firmare questa nuova presentazione.

Dal ’93 al ’96, egli ha lavorato soltanto a questa “impresa”, immaginando una serie di ottanta oli su tavola, nonché ventisei tecniche miste e un gruppo di disegni: in tutto centodieci opere. Oggi Pini ha poco più di sessant’anni, ma da quando, per la prima volta, me lo son visto davanti, è stato sempre fedele a se stesso, articolando la sua fatica d’artista con uno sviluppo coerente, anche se, strada facendo, ha modulato variamente la sua ispirazione. Soprattutto la musica è stata sempre un motivo per accendere il suo estro. Ecco anche la ragione per cui, nelle sue immagini, vi sono tanti musicisti, direttori d’orchestra e cantanti d’opera. È presente il ricordo di Ciaikowski con la sua casa in via San Leonardo; Debussy per il San Sebastiano di d’Annunzio; è presente un musicista d’avanguardia come Sylvano Bussotti. Ma in particolare sono presenti i direttori che hanno diretto l’orchestra a Firenze: Muti, Gavazzeni, Zubin Metha, Carlo Maria Giulini . E naturalmente i cantanti dell’o­pera: il tenore Alfredo Kraus e Leo Nucci, straordinario interprete del Macbeth verdiano.

Pini non s’accontenta però di semplici ritratti, egli ricrea intorno ai personaggi il clima, l’at­mosfera dell’opera, la situazione in cui, nel teatro fiorentino, le opere furono dirette e can­tate. Per lui si tratta di un modo personale di concepire le “scene”. Ciò, forse, risulta ancora meglio quando affronta le situazioni di cui sono interpreti i poeti, i pittori e gli scultori.

Per i poeti e gli scrittori egli ha un’attenzione non ristretta unicamente al ritratto. Egli, più di una volta, ne correda il ritratto nell’aura delle simpatie ch’essi rivelano nei confronti di un altro personaggio. Se Pini dipinge Bilenchi gli raffigura alle spalle l’immagine di Rosai; se rappresenta Penna, gli pone alle spalle un gio­vine scaruffato; se coglie acutamente la fisio­nomia tormentata di Pasolini, gli pone dietro il Pontormo di Santa Felicita, che Pasolini tanto amava. E così De Chirico con alle spalle Santa Croce, e Luzi con alle spalle il Duomo. Ed ecco anche Ungaretti, intitolato il “vecchio satiro”, non perché tale egli fosse, ma perché dietro di lui c’è la Fontana del Giambologna, dove un gruppo di satiri, con tanto di corna, zoccoli e barbette, fanno mostra di sé in Piazza della Signoria. E infine ecco Campana e Papini: i “fogli sparsi” ricordano il Papini che smarrì il manoscritto originale di Campana: un Papini zazzeruto e occhialuto con un Campana inno­cente nel suo fiducioso candore.

Ma quanti altri personaggi ricorda Pini che sono vissuti a Firenze, per nascita o acquisiti: Landolfi, Santini col suo vivo ricordo di Viani, Loffredo; ma più spesso sono personaggi con una storia minore, ma ugualmente per lui importante: il matrimonio dei genitori; la Tina col gatto; gli amici pittori Gioxe, Bec e Benucci. C’è anche un’opera con un curioso titolo: il Quadrato dell’amicizia, dove appaio­no quattro personaggi: Giampiero, Roberta, Landi e lo stesso Giuliano Pini, che sta dipin­gendo: Giampiero è l’amico del cuore, Roberta è la sua compagna e Landi è il fornaio di San Donnino, nei pressi di Firenze, primo e fedele collezionista delle sue opere.

Dunque, sempre cronaca e storia, ma non solo. La visione documentaria comunque non è mai generica. Ad ogni quadro è la qualità dell’artista che emerge energicamente, salvan­dolo ogni volta con le sue qualità espressive, sempre ricche d’invenzioni formali, di vitalità e di stile. Il colpo d’ala arriva ogni volta che l’i­spirazione ha bisogno di uno scatto che la induca a misurarsi con la qualità delle sue immagini più forti, un fatto esplicito nei momenti più accesi dell’estro, quando l’emo­zione lo coinvolge a fondo. Allora cronaca e storia sospendono la loro ingerenza e folgo­rante si dichiara l’assoluto della fantasia.

È un fatto che succede assai di frequente, ogni volta cioè in cui Pini trova il fervore delle sue immagini più esaltate. Quindi in molte delle immagini che ho già citato, ma certo in nume­rose altre. Quando dipinge, ad esempio, Gli amanti fiorentini o Gli amanti di Borgo San Jacopo. Così quando dipinge Il Quartiere di San Pierino. Sono tutte opere in cui egli si abbandona ad una emozione interiore, che gli viene da lontano, dagli anni della sua giovinezza. Ma i tempi cambiano, irrompono i giovani inforcando a gara le loro motociclette, rifiutando la musica delle grandi orchestre per lo strepito dei loro motori. Pini percepisce e registra il mutamento in una maniera ricca di fascino nella Città che avanza. Per lui, insomma, non si tratta mai di una circostanza casuale o accidentale. Al contrario, si tratta sempre di un’occasione per dimostrare la sua penetrazione di un tema sicuramente poetico.

Così si veda Il giovane e la civetta rossa, dedi­cato a Landolfi oltre al ritratto: un quadro di ardita concisione e al tempo stesso plurimo di effetti, che dà senz’altro l’idea di uno scrittore sensibile al bizzarro e al grottesco, come tale era l’autore de Il mar delle blatte o de La pie tra lunare. Ma che dire di un’opera in cui Pini propone insieme Rosai e Bacon? Forse, la prima colpa di questi due personaggi uniti in una sola immagine, è unicamente mia. Sono stato io infatti che, considerando in particolare Rosai, un artista di un’umanità inquieta e tur­bata, ho pensato a Bacon ugualmente turbato e inquieto nello spirito delle sue immagini. Pensavo soprattutto a certi autoritratti rosaiani ingorgati e sanguigni, che forniscono di lui un turgido aspetto, assai simile alla densità di un Bacon, che ha concentrato tutto il suo interesse sull’uomo rifiutando ogni ricatto dello spirito.

Probabilmente si tratta di una considerazione arbitraria, tuttavia, per tramiti segreti, non vor­rei escludere totalmente una simile possibilità. Ma i tramiti segreti sono innumerevoli. Molti di essi misteriosamente come ricorda Dante, vengono dal “fiumicel che nasce in Falterona”: il Sogno sull’Arno coi due giovani abbracciati sul fare dell’alba; e Verso il crepuscolo, dove una giovane donna sta alla finestra sognando l’amore. L’Arno però è anche il fiume dell’allu­vione. Pini ne ha fatto un grande quadro, con in vista il Battistero del Duomo e i battellieri che gli si muovono incontro. Accadde il 4 novembre del ’66. Furono giorni di tragedia e di allarme. L’acqua invase le strade e le piazze. Ora, dipingendo questa inondazione, Pini ricorre anche a un’immagine di Michelangelo, ma è quella della Cappella Sistina, dove si vede la donna che protegge i bambini nel manto gonfiato dal vento.

Del resto, il suo ricorso alle immagini di Michelangelo, è abbastanza frequente. Egli ha letto anche il saggio di Thomas Mann sull’Eros di Michelangelo: la malinconia di Michelangelo è quella d’un vecchio che guar­da il sole al tramonto, mentre i giovani dormo­no ignari. Ma a un Prigione di Michelangelo egli ricorre per L’oro del tempo, un’opera pro­fusa di raggi dorati. Il quadro rappresenta la vasta sala dell’Ospedale degli Innocenti, dove sarà fatta la sua mostra. Pini sta dipingendo e, dietro di lui, Roberta lo sta guardando col sen­timento di chi intende difendere ogni momen­to della sua fatica creativa. È difficile tuttavia descrivere nel dettaglio le opere che Giuliano Pini ci pone davanti. Ho chiamato l’insieme di queste sue opere un’ “impresa”. E tale è davvero, ma ciò che ne esalta il pregio è la qualità, sempre adeguata al tema e all’idea. I motivi che lo guidano rifug­gono da ogni effetto che sia privo di rilievo o di carattere. Infatti, sia nei quadri legati all’im­mediatezza della cronaca che in quelli preoc­cupati della storia, egli è sempre alla ricerca di un rilievo significante, che dia una convinta giustificazione alle sue immagini. Ecco perché, in ogni caso, si muove con un’ampiezza sicu­ra, capace di fornire alla fantasia l’approccio liberatorio. Immaginoso e immaginario sono i termini delle sue apparizioni figurative. Egli va dritto allo scopo senza esitazioni e dubbi, come se, in ogni caso, avesse un criterio indu­bitabile di scelta.

Sono queste le garanzie della sua tempra: il suo respiro, le doti della sua natura. Pini dimo­stra la validità del suo impegno di pittore senza incertezze, senza esitazioni di sorta. È un pittore dalla testa ai piedi, tutto quello che fa lo dimostra: l’intuito del colore, la finezza del disegno, la maniera di concepire gli spazi, la concentrazione che gli consente di stringere in pugno i particolari di un’immagine. Sono queste le doti che gli permettono di prendere il largo e di essere quel pittore che è.

E l’amico Melotti, in tale impresa, lo ha confor­tato e sostenuto.

La mostra fiorentina, senza dubbio, confer­merà questi valori. Il suo linguaggio è contro ogni genere di ermetismo, ma non è contro alla complessità di un discorso ricco di emble­mi da interpretare e di simboli da rilevare. Sono questi simboli ed emblemi che occorre leggere e scoprire, conservando sempre una base fondamentale nella natura. Ci si ricordi di Montaigne, che diceva: “La natura non è altro che una poesia enigmatica”.

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