Mario De Micheli

“Il sogno wagneriano – Un pittore alle prese con l’opera di Wagner” Teatro Pacini, Pescia, conferenza 8 dicembre 1992

N PITTORE ALLE PRESE CON L’OPERA DI WAGNER
Mario De Micheli

Conferenza tenuta a Pescia, Foyer del Teatro Pacini, 8 dicembre 1992: « Richard Wagner: il mito, il sogno, il fantastico ».

Non c’è dubbio che gli interpreti di Wagner, della sua musica, dei suoi testi poetici e del suo pensiero critico, sono spesso contraddittori tra di loro, diversi per simpatia e antipatia, per consenso e dissenso. Talvolta poi simpatia e antipatia, consenso e dissenso si coniugano insieme. Basta pensare a Nietzsche per rendersene conto.

Ma a complicare le cose c’è stata anche la teutomania che ha cercato d’incorporare Wagner nell’area nazionalista della destra più proterva e razzista. A salvarlo da tutto ciò è stato un filosofo quale Ernst Bloch che in un saggio famoso ha liberato Wagner da ogni possibile equivoco, restituendolo con energia alla potenza della musica e della poesia.

Ma non è di questi diversi e magari opposti interpreti di Wagner che qui, in questa sede, dobbiamo occuparci questa sera. L’interprete di Wagner di cui dobbiamo occuparci è invece un artista come Giuliano Pini, che per ben cinque anni, senza interruzione, ha cercato di tradurre Wagner nelle immagini della sua pittura.

Non è stata di certo un’impresa facile, la sua. La sensibilità di Pini alla musica era già segnata da una consue­tudine profonda e da una inclinazione naturale. In precedenza era stato persuasivamente soggiogato dalle note di Mahler, che ne aveva suggestionato l’ispirazione. E qui devo dire che Pini ha manifestato, sin dalle sue prime prove, una particolare tendenza verso la cultura austro-tedesca anche per quanto riguarda l’arte figurativa. Io ricordo molto bene quando, più di trent’anni fa, venne a trovarmi a Milano. Era la prima volta che lo vedevo: un ragazzo magro e timido, con un fascio di disegni sotto il braccio.

Io guardai quei fogli: vi era un inconfondibile segno che ricordava soprattutto Grosz e Otto Dix, il segno cioè che si riallaccia direttamente alla cultura dell’espressionismo tedesco: un segno risentito e forte, legato all’espe­rienza più avanzata dell’ala sinistra di quella Cultura.

Pensandoci adesso, vedo benissimo le radici che, sin da allora, si legavano ad una tradizione politica da cui lo stesso Wagner non era escluso. Parlo dello stesso Wagner che, nel 1849, aveva combattuto al fianco di Bakunin sulle barricate di Dresda.

A quel tempo Wagner aveva scritto un testo rivoluzionario che, in Italia, ha senz’altro avuto una sicura influenza. Tale testo era stato tradotto a Genova nel 1907 e, senza dubbio, aveva avuto una sicura influenza su Lorenzo Viani. Era un testo dove si potevano leggere affermazioni come queste: «Voglio annientare la forza dei potenti, della legge e della proprietà… Voglio distruggere l’ordine esistente delle cose che divide l’umanità, che è una, in popoli nemici, in potenti e in deboli, in uomini con tutti i diritti e uomini senza alcun diritto, in ricchi e poveri, perché ciò non fa che rendere tutti infelici».

È questa stessa decisa insofferenza verso le regole della vita sociale che egli porta poi dentro l’angusta acca­demica della vecchia drammaturgia teatrale, quando vi irrompe con la forza sconvolgente del proprio genio.

Solo che oggi occorre però imparare a leggere Wagner in maniera diversa da come, tante volte, s’è fatto nel passato.

Come giustamente avverte Bloch «il direttore d’orchestra che sporca il suono, che lo imbratta col rumore, che non perde occasione per esaltare i timpani, è un nemico di Wagner». E aggiunge: «C’è un Wagner nuovo e leggero da far emergere in luogo del vecchio, un Wagner ben presente nelle sue opere, infinitamente più simile ad un vino della Mosella che alla birra calda».

Ecco, a guardare i quadri di Pini, sembra davvero che egli abbia interpretato in questa chiave le opere wagne­riane. Egli lo conferma chiaramente.

Dice in una recente intervista: «La familiarità, che a poco a poco ha finito con il contraddistinguere il mio approccio wagneriano, mi ha consentito di non essere travolto dagli aspetti più spettacolari o solenni e di dedicare particolare attenzione alle figure cosiddette minori, riuscendo così a cogliere i segni a me più congeniali ».

E aggiunge: «Sembra paradossale che in un mondo di giganti, quale è senz’altro quello di Wagner, ci sia spazio per i deboli, i derelitti, i sofferenti. Ma è stato proprio il mondo popolato da queste figure ad attrarmi parti­colarmente, fino a sedurmi con l’umana tenerezza di Wotan nell’addio alla figlia Brunilde, con il dolore di Amfortas vittima di una ferita che non vuole rimarginarsi, con la disperazione dell’Olandese volante costretto a viaggiare all’infinito, con l’affettuosa premura di Gurnemanz, cui non a caso ho prestato i connotati di mio padre, sempre disposto a proteggere i più giovani e i più deboli. Il discorso potrebbe essere suffragato da ulteriori esempi, quello che tuttavia mi preme sottolineare sono gli aspetti squisitamente umani dei personaggi che diventano degni di attenzione non nel momento di massimo fulgore o di spaventosa potenza, ma giusto quando sono costretti a mordere la polvere della sconfitta».

È dunque così che Pini, appunto, ha dipinto «Il Crepuscolo degli Dei». Sono gli Dei che hanno voltato le spalle al mondo. Proprio come nell’ode di Schiller del 1793, dove

«La Natura priva degli Dei obbedisce servilmente alla legge di gravità, come il battito
morto dell’orologio a pendolo.
Sì, gli Dei tornano a casa e tutto ciò che è bello, nobile, lo portano via con sé,
tutti i colori, tutte le voci della vita…».
Era lo stesso pensiero di Hegel, nel testo poetico Eleusis, del 1796:

«Fuggendo gli altari consacrati,
l’insieme degli Dei è ritornato all’Olimpo;
e il genio dell’innocenza, che li aveva attirati fin qui con la sua magia,
è fuggito davanti alla tomba dell’umanità profanata».
Ma anche Hòlderlin non si esprimeva diversamente:

«Troppo tardi, amico, giungiamo noi. Vivono certo gli Dei ma là, sul nostro capo, in un altro mondo».

A differenza però degli Dei di Schiller, di Hegel, di Hòlderlin, gli Dei di Wagner, come esseri umani, sono preda della paura. Wagner fa capire che in un mondo senza Dei non c’è più spazio neppure per l’uomo. Gli Dei e gli uomini hanno dunque un uguale destino. Ed è appunto questo destino che Pini ha dipinto, turbato e spesso inquieto, addirittura, come egli stesso dice, «preso dal panico», ma anche, al tempo stesso, esaltato da questa grande musica che, se da una parte lo sgomentava, dall’altra lo metteva in rapporto con la sostanza pura e segreta della poesia.Da quel lontano 1961, in cui Giuliano venne a trovarmi a Milano, al Pini di oggi, sono accadute molte cose. La sua visione si è allargata, si è fatta più ricca, più aperta ai sentimenti della vita e della morte, più preoccupata dei problemi che interessano la nostra intima sorte dentro la brutalità della storia. Oggi non è più il Pini che limitava il suo sguardo a una critica diretta e particolare della situazione in cui socialmente viviamo. Lo sguardo, adesso, fruga nei valori della coscienza e si pone i grandi temi che assillano la nostra presenza sulla terra. È qui dunque che è avvenuto il suo vero incontro con Wagner.

E tuttavia lo strumento, il mezzo, la tecnica di cui, in tale incontro, egli usufruisce, oggi come ieri, non è muta­to: è ancora il disegno, quel particolare modo nitido, incisivo, definitorio, che tanti anni fa mi aveva colpito per la sua risoluta qualità di chiudere le forme e renderle evidenti. Egli stesso ci tiene a sottolinearlo.

Dice: «Il momento primario è quello del disegno… Dunque parto e disegno, un disegno esatto e ricco come un’intelaiatura e mentre stendo queste campiture c’è già il sentimento finale… Poi riempio il quadro con i colori base, i colori vengono come incastonati all’interno della struttura disegnativa ».

Il metodo è dunque quello stesso, almeno inizialmente, che a suo tempo stava alla base di un pittore neoclas­sico, di David, per esempio. Ma appunto si tratta soltanto della prima fase costruttiva dell’opera, poiché al momento in cui il quadro è già coperto dalla prima stesura del colore, Pini, con violenza improvvisa, lo distrugge e ritorna a dipingerlo. È la seconda fase del processo esecutivo dell’opera, a cui segue la fase finale, quella in cui egli, quasi abbandonandosi all’eco di un ritmo musicale, ridà energia finale alla sua composizione, ne trova il ritmo, la giusta scansione.

È dunque in questo rimettere in gioco la fortuna della propria opera che Pini supera il momento neoclassico per incontrare, nella veemenza del sentimento e del ritmo, il suo Wagner, il proprio accento «romantico» così pie­namente aderente al romanticismo wagneriano.

Guardate le opere che Pini ha eseguito inseguendo il flusso musicale di Wagner, d’opera in opera, sia pure senza un ordine cronologico. Guardate le immagini definite con le matite colorate o con le tempere o con l’olio. Il disegno non è più quello di una volta intento unicamente a fissare realisticamente le fisionomie dei personag­gi della scena sociale. Ora il disegno si dispiega sul foglio, sulla tavola o sulla tela, con fantasia liberatrice, con fluttuante movimento, con abbandonata liricità. Il segno si distende, si arricciola, si fa fregio e ornamento, diven­ta immagine, volto, cavallo, corpo ignudo, velo e paesaggio. È un segno melodico, flessuoso, decorativo, grafica­mente prezioso. E il colore? Ecco: il colore è sontuoso, è rosso, verde smeraldo, viola ametista, è ombra profonda, tramonto o notte lunare. Ed è negli spazi di questo colore che gli Dei e le creature della mitologia germanica si muovono, fatalmente seguono la loro sorte, riscattano il loro destino, vivono sonoramente la loro favola.

L’Olandese Volante, Tannhauser, Lohengrin, Wotan, la Valchiria, Sigfrido, Tristano e Isotta, sino al mitico Parsifal: ogni personaggio wagneriano Pini l’ha disegnato e dipinto disegnando e dipingendo se stesso, la propria anima inquieta, i propri sogni e le proprie utopie. La trasposizione di se stesso nel disegno e nei colori di questa sua avventura wagneriana è totale. Egli ha trovato nella musica di Wagner una spinta emotiva e fantastica che gli ha permesso di trovare la propria natura d’artista.

Bloch, all’inizio del suo saggio su Wagner cita il De arte poetica di Orazio. È una citazione stupenda: «Non fumum ex fulgore sed ex fumo dare lucem». Senza fumosità alcuna Pini ci ha dato un Wagner di luminosa intensità. Ma ciò gli è riuscito solo perché ha trovato con Wagner una identità moderna: ha ritrovato il potere del sogno. In tempi di mediocrità generale come i tempi in cui viviamo, sognare gli eroi di un possibile domani diverso può essere salutare. E questo è appunto il sogno che, partendo da Wagner, Giuliano Pini ha osato fare. Ecco, non sarò certo io, amici, a dargli torto, soprattutto se ilsogno, pur assurdo, ci può svegliare dal rischio di un sonno senza risvegli.


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