Mario De Micheli

Galleria. Solferino, cat. mostra, Milano 1973

Qualche anno fa, scrivendo di Giuliano Pini, parlavo della sua pittura come di un suggestivo « giardino dei supplizi ». Con tale allusione ne volevo mettere in evidenza la sottile, inquieta, capziosa ambiguità; il sontuoso splendore dispiegato in un labirintico gioco d’immagini; il simbolismo intellettuale e psicologico teso ai limiti dello spasimo. Direi che il discorso, oggi, nella sostanza, non va mutato. Pini ritorna coi suoi colori gremiti, con le sue tele cariche di lacche, coi suoi personaggi disposti a scendere nel Tartaro incoronati di ba­gliori piuttosto d’accettare la regola di un tempo mortificante, la piatta dimensione di uno spazio cieco.

É questo, infatti, il tema di fondo che continua ad animare la pittura di Pini. Egli cerca intorno a sé un’eco, una risonanza. Cerca, attraverso il cupo fiammeggiare dell’immaginazione, un « altro luogo », una regione poetica dove il respiro dell’essere non soffra di coercizioni. inutile domandare a Pini i segni della nostra cronaca, il racconto diretto delle nostre disperazioni o delle nostre insorgenze: ogni sua tela, al contrario, è un puro traslato delle potenze dell’anima che non rinunciano a creare il regno della propria libertà.

Le sue figure hanno questo significato, rivelano, e talvolta dolorosa­mente, questa urgenza, che tuttavia non va interpretata come una pro­posta di fuga, bensì come un rifiuto a cedere incondizionatamente le proprie doti più segrete e più fervide. C’è dunque, nelle opere di Pini, la presenza di un conflitto, la coscienza di un dissidio. La ragione che lo induce a esasperare la flessibilità della linea, ad amplificare sino all’iperbole la somaticità di certi suoi personaggi, come il « putto » erculeo dei suoi ultimi quadri, va rintracciata in questo atteggiamento che si esprime in modi folti, tormentati, dentro cui trascorrono volen­tieri notturne fosforescenti apparizioni, mentre in primo piano emer­gono le « dramatis personae » della sua visionaria fantasia.

Quanti anni sono che seguo il lavoro di Pini, che ne vedo quasi perio­dicamente i quadri nel suo studio fiorentino all’ombra del Bargello? Almeno quindici anni. Non c’è dubbio che il suo itinerario espressivo sia stato e sia tuttora guidato da una rara coerenza interiore, da una costante tensione spirituale confrontata di continuo sugli avvenimenti del mondo. I simboli di Pini infatti non sono sigillati in se stessi, ma nascono da una combustione dove confluisce e si traduce in immagine, sogno e allucinazione, il desiderio di una verità più intensa e totale.

È lungo questo percorso ch’egli ha elaborato il suo linguaggio, mescolando il segno fluido e ondeggiante dei suoi giovanili ardori botticelliani col segno più duro e impietoso del suo Otto Dix. Oggi Pini ha raggiunto il sicuro momento della sua maturazione stilistica, il punto dove ogni ricerca ed esperienza si rifondono in una enunciazione che va al di là delle proprie iniziali premesse. I quadri che appaiono in questa mostra ne sono una prova. Fra tenebre e luci, fra sogno e realtà, i suoi personaggi sono presenti, testimoniano un dramma di cui anche noi, in fondo, non possiamo fare a meno di sentirci protagonisti.

(1973, presentazione per la personale alla Galleria « Solferino », Milano).

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