Mario De Micheli

Galleria. SantaCroce, cat. mostra, Firenze 1970

Scrivendo due anni fa della pittura di Pini, ho parlato dello strano « giardino dei supplizi » di cui le sue tele, allora, erano immagine. Si può ripetere oggi, di fronte ai quadri ch’egli ha dipinto in questi ultimi tempi, una simile definizione? Certamente, almeno in parte, sì. Pini infatti continua a dipingere un Eden diventato come di colpo consapevole del dramma dell’uomo, un Eden dove splendore e miseria, impeto e prostrazione, gioventù e vecchiaia si compenetrano, si contraddicono, si fondono in una visione sontuosa, in una « allegoria dell’esistenza » folta d’inquietudini e di domande. Ma al tempo stesso qualcosa è cambiato. Si tratta di un processo in corso sin dal ’67, che è andato via via precisandosi in un progressivo abbandono degli iniziali dati di cronaca, di costume e di satira, che gli provenivano da certe suggestioni dixiane, per una scelta di valori storico-esistenziali più profondi, ricercati nella sostanza di una riflessione globale piutto­sto che nell’ambito di una puntuale descrizione di circostanze. Lo « strumento » è rimasto fondamentalmente lo stesso: quel disegno netto, penetrante, che dà struttura definitoria alle immagini e che gli deriva tanto dalla Neue Sachlichkeit che dalla tradizione gotica e quattrocentesca toscana, complicata, nel gusto di una linea ondulata e flessibile, da un’intima inclinazione verso talune soluzioni liberty, oggi però, la tendenza del suo discorso si muove nel senso di una maggiore risonanza del colore, nella direzione di una immagine più larga, immersa volentieri in ombre notturne dentro cui s’accende e fiammeggia per improvvise vampe.

Il « sentimento del tempo » ha fatto irruzione nelle tele di Pini, coin­volgendo nel suo flutto il « sentimento della storia ». Il Vecchio Nar­ciso non si guarda più nelle purissime acque dello stagno ma, ridotto grinzoso e orrendo come Tiresia nei versi di Eliot, specchia il suo volto in un banalissimo specchio appeso al muro di una stanza; l’am­plesso degli amanti si fa scoscesa vertigine, discesa lunare verso il Tartaro; l’uomo sotto la doccia, dietro il diaframma dei cristalli, di­venta un livido enigma enunciato nella dimensione di una vicenda di cui è difficile predire l’esito finale.

È chiaro che l’uomo resta al centro della preoccupazione di Pini, ma vi resta al centro di un conflitto di cui non tutti i termini sono evidenti. Vi resta « nodo » di energie antagonistiche, razionali e irrazionali, di negazione e redenzione, di bellezza e violenza, non interamente sco­perto a se stesso, forse addirittura ignaro delle forze che racchiude nel proprio petto, in attesa che un « evento » lo riveli alla propria coscienza, alla propria urgenza di libertà dentro e fuori di lui.

E forse questo che Pini ci vuol dire con L’uomo velato e il drappo rosso? Il personaggio imbavagliato, fasciato, con le braccia legate dietro la schiena, simile ad un prigioniero, appare al centro del quadro, fra l’affiorante « mostro » a sinistra e il palpitante drappo scarlatto a destra. E’ un personaggio carico di repressa potenza, con un volto an­cora indefinito, ma che sta definendosi sotto il velo in procinto d’es­sere strappato da una irresistibile forza d’attrazione. Pini così ci pro­pone una immagine energica nel suo allusivo simbolismo: un’imma­gine che vede l’uomo restituito a se stesso in un tempo misterioso che si fa o si farà storia: una immagine quindi di liberazione delle forze represse dell’uomo, di tutte le sue potenze interiori e di tutte le sue possibilità esteriori.

Ho detto simbolismo. E’ la parola giusta. Pini è passato da una pittura di racconto, di episodio, a una pittura di significati generali per sim­boli. In questo passaggio la sua pittura si è indubbiamente arricchita, è cresciuta d’intensità, maturando su se stessa per un lievito poetico che già conteneva fin da principio. I suoi « simboli » infatti non hanno mai nulla d’astratto; hanno invece spessori, densità, bagliori; sono insomma « simboli » collegati con la virtù di una vera operazione creativa, che è sempre di natura complessa, a cui partecipa tutto l’es­sere dell’artista, non solo il gioco dell’intelligenza.

Per me è evidente che in questi ultimi quadri Pini ha trovato una nuova e più sicura misura di sé. Come nel suo Autoritratto nel giar­dino notturno sembra che, nella sua assorta meditazione sull’esistenza, gli sia esplosa silenziosamente accanto una fontana ineffabile di fiori balenanti e fosforescenti. Cioè: una pittura come immaginazione, come traslato inesauribile delle mille e una verità della vita.

(1970, presentazione per la personale alla Galleria « Santacroce », Firenze).

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