Mario De Micheli

Galleria. L’Agrifoglio, cat. mostra, Milano 1969

La personalità di un pittore come Pini si è sviluppata attraverso un lavoro di ostinata coerenza, di esclusivo puntiglio. E si può anche dire: attraverso un lavoro svolto in una propria solitudine di ricerca, di maturazione poetica. Basta confrontare i quadri di oggi coi suoi disegni di una decina di anni fa per rendersene conto: non sono infatti mutati né i temi né i modi grafici, allora come oggi incisivi e inquietamente analitici.

Lo sviluppo di Pini è avvenuto nella sostanza delle stesse immagini, degli identici personaggi. E questo fatto va tutto a suo vantaggio. Vuol dire che non siamo di fronte soltanto ad una coerenza di puro svolgimento formale, bensì in presenza di un nucleo creativo profondo, persistente, che è andato via via crescendo per intima energia. Nel corso di questi anni ciò che ancora appariva esteriore alla sua immaginazione figurativa è caduto lungo la strada: quello che un tempo era unicamente un dato descrittivo di cronaca, di satira o di costume, ora ha acquistato una particolare intensità espressiva, un peso, una gravitazione esistenziale. Su queste basi sorge la sua pittura, che è ricca, sontuosa, gremita, ma al tempo stesso tesa, stretta in un disegno implacabile, spinto all’estrema consequenzialità della linea.

I quadri e i fogli di Pini sono ancora cioè popolati di « signore » abbondanti e piumate che trascinano grinzosi mastini al guinzaglio; ancora ci presentano attempati « aristocratici » decaduti o in decadenza; ma il loro senso è diverso, o per lo meno si è caricato di una verità più complessa, quasi di un’impietosa meditazione sull’esistenza, di una più recondita amarezza. La circostanziata e allucinata evidenza delle sue immagini, il ripetersi della « coppia » pateticamente sgradevole in un ambiente di vecchio decoro, la volontà di scrutare su di un volto, fin nei minimi indizi, le tracce drammatiche e disperate di una vicenda umana, la passione determinata per la definizione somatica più completa; tutto ciò è il segno specifico di una singolare concentrazione di Pini su alcuni modi e motivi essenziali che ne caratterizzano sia la fisionomia stilistica che la visione significante. Così, davanti ai nostri occhi, si aprono le tele di Pini come uno strano « giardino dei supplizi », come un Eden diventato improvvisamente consapevole del dramma dell’uomo: splendore e decrepitezza, impeto e prostrazione, gioventù e vecchiaia. E ci si accorge in tal modo, che la sua pittura non è che un’allegoria: ma un’« allegoria reale », s’intende. Non c’è dubbio che in Pini permane un attrito critico di fondo, una punta crudele di grottesca ironia, ma insieme con ciò, è altrettanto certo, affiora anche una vena di pietà, sia pure di una pietà senza illusioni, senza domande di grazia. E’ naturale quindi che egli, senza di¬sperdersi in divagazioni sperimentali, abbia puntato sin dall’inizio su di un linguaggio preciso, acuto, alieno da ogni approssimazione « poetica ». Ed è naturale che tra i suoi « maestri » egli abbia posto soprattutto un Otto Dix, il Dix dei grandi ritratti implacabili degli anni ’20, il Dix del periodo più tagliente della Neue Sachlichkeit. Ma forse è anche opportuno far notare che quel disegno netto, penetrante, lineare, che dà struttura definitoria alle sue immagini, deriva a Pini anche da una tradizione più remota, da quella tradizione gotica e quattrocentesca toscana che egli ha studiato e assimilato sin da ragazzo, una tradizione da cui non è esclusa neppure quella linea ondulata e flessibile, che in lui si complica con talune suggestioni liberty. Nel caso di Pini comunque occorre dire che tali suggestioni liberty non si rivelano mai come un elemento sofistico dell’enunciazione figurativa, ma come qualcosa di vivamente aderente al mondo della sua espressione. Per tutte queste ragioni, la pittura di Pini si pone come una seria proposta tra quelle di sicuro valore ed efficacia, che un gruppo di artisti ha elaborato in questi ultimi anni, da Guerreschi a Ferroni, da Vespignani a Cremonini e Bodini. Egli lavora in una dimensione analoga, come impegno morale e come tendenza, pur nella piena autonomia dei suoi mezzi e dei suoi propositi. I quadri ch’egli espone in questa « perso­nale » costituiscono un indiscutibile risultato e una garanzia per il suo sviluppo futuro. In altre parole, sono di già « opere », a cui senza esitazione può andare (e va) il nostro consenso.

(1969, presentazione per la personale alla Galleria « L’Agrifoglio », Milano).

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