Renzo Vespignani

“Il punto da raggiungere”– Galleria. La Bezuga, catalogo. mostra, op. citata

Carissimo Pini,

spero che mi perdonerai se non scrivo per la tua mostra il solito pezzo solenne e, si fa per dire, critico. Cosa vuoi farci? La ritualità di certa letteratura da catalogo mi sembra oramai un vizio vergognoso, male oscuro dal quale ho deciso di guarire. Del resto io non sono esperto in questioni di metodo, né riesco a dominare completamente la tavola sinottica delle tendenze contemporanee. Mi piace un pittore, non la squadra cui appartiene; sono affascinato dall’eccezione, non dalla regola: dall’inesplicabile ossia (dentro o fuori della tradizione), che mi sorprende e mi contraddice. Da tipi come te, « casi », « personalità anomale », dalle quali è difficilissimo prendere una giusta distanza critica. E allora perché, a vantaggio di chi fingere un rapporto impersonale, una freddezza da perito settore? Se qualcosa mi riesce di leggere nella tua opera, sarà perché mi fa da tramite una comune condizione professionale: dopotutto sono un amico che traffica con i tuoi stessi strumenti, e con gli stessi interrogativi.

Dunque una chiacchierata tra noi. Magari con un occhio a quei pochi che vorranno ascoltarci. E allora: prima di tutto: bravo. Ma d’essere bravo lo sai, né può sfuggire al più distratto dei passanti, dal momento che questi disegni precisi come la incisione di un bisturi, sono per sé stessi comunicazione immediata e persuasiva. Se non altro come exploit artigianale: un segno grigio, instancabile, quasi la rete di una pazientissima epeira; eppure nervoso, funzionale; come dire?, « adeguato » alla mediocre qualità della vita e dei sentimenti del nostro tempo. So bene qual è il prezzo di un uso tanto cocciuto e casto della matita: la dura discriminazione tra mille possibilità, ipotesi e tentazioni. In definitiva tra verità enunciata e verità tout court. In altre parole, mi sembra questo il più evidente dei tuoi meriti: costruisci, in un’epoca di simboli utilitari, sciatti e fragili, un « oggetto » perfettamente strutturato, un orologio che camminerà per un bel pezzo. Che poi sia un orologio che non guida ai piccoli appuntamenti quotidiani, non è affar tuo. Di chi lo vorrà usare, invece.Ma non credo che valga la pena di parlare tra noi, ancora, di qualità. Piuttosto del senso che hanno queste tue immagini, al di là della loro eloquenza e compiutezza. Della loro natura e origine, della loro presenza provocatoria. E qui, come sempre, le risposte sono più difficili. E approssimative le domande. Ne ho una sulla punta della lingua: come nasci? Io ti ho visto sempre, rispetto all’habitat fiorentino (e non soltanto fiorentino) estraneo ed « inopportuno », quasi paracadutato da un ufo. Per quali contaminanti incroci è nata una calligrafia piena di svolazzi e di incubi nordici, e di introspezioni così poco cattoliche, dentro e contro la cultura di una città che vive di illusioni eurocentriche? Così tenacemente arroccata in una illuminata sufficienza di dimensioni comunali. Si può immaginare Bosch che pillucca grappoli d’uva nel Chianti? Ho sempre creduto che, a Firenze, le ultime streghe fossero state bruciate da Savonarola. Eppure, nei tuoi disegni, Astharot celebra il sabba sotto la cupola di Brunelleschi. E tu lo predichi —lo annunci — con gelida violenza. Nella tua oratoria la « grande meretrice » non è più la chiesa, ma la storia tutta, con il suo schiacciante carico di promesse deluse. Le streghe e gli esorcisti di Loudun corrono le autostrade in Mini Morris. Il tempo frana su sé stesso, e come Tiresia il pittore sa che i roghi di Valladolid si riaccendono in Cambogia. Che senso avrebbe chiedergli i segni dell’attualità? Il tempo che lo data è un tempo più denso, più vero del nostro evasivo calendario.

Ora non te la prendere: sei un moralista; e subito ti rassicuro, non di « taglia » italiana (che è taglia parrocchiale). Penso a Swift, piuttosto, alle sue parabole ossessive e funebri. Assai più che nei quadri lo riveli nei disegni: qui lo sdegno diventa scientifica nomenclatura del male, quasi una impavida analisi « in vitro » di un processo regressivo e inarrestabile. Come quelli di Swift, i tuoi mostri non proiettano ombre: l’ironia cede alla completezza maniacale della definizione, e il tratto diventa limpido, trasparente come l’acqua. O come una pulitissima lente.

Cede l’ironia, dicevo, e insieme l’enfasi e la sensualità. Scompare nell’apparente grazia della matita, quel tanto o poco di turgido, di troppo dolente che è neí tuoi quadri. In questi fogli tutto è chiaro, come nei piani costruttivi di una macchina. Ingegneria della colpa e della dannazione? Non so. Mi viene da pensare a Guerreschi: corpi che diventano macchine, macchine che diventano mostri, mostri che si rivelano alla coscienza come in una proiezione ortogonale. E un’inclinazione al ritmo, alla iterazione ossessiva, persino alla bellezza « apollinea ». So bene che non è giusto, a volte sgarbato, rilevare nell’opera di un pittore i segni di forti ascendenze letterarie. Ma i tuoi disegni sono a tal punto scrittura (e in senso niente affatto aneddotico, racconto) da indurmi, con prepotenza, ad altre citazioni. Penso a Poe: e non per qualche consonanza dei temi; piuttosto per il claustrofobico avvolgersi della parola — del segno — su se stessa; per quella vocazione geometrica tesa ad enunciare e a risolvere il misterioso, l’illogico, con la logicità di un teorema. E a Kafka, naturalmente: la condanna capitale per te, come per lui, è inevitabile. E va scritta in termini che sono al di là della commozione e della pietà. Proprio come nella Metamorfosi: chi si stupirà se Gregorio Samsa, in un’alba qualunque, si sveglierà insetto? Il racconto comincia da questa mancata sorpresa. Come il tuo, che dà per scontata l’umanità del disumano.

Altro, adesso, non so dirti. Altro, con sollievo dell’eventuale lettore, ci diremo a voce. Non mi resta che augurarti buon lavoro. Anche di questi tempi, dopotutto, il nostro è un lavoro buono

Roma, 9 Aprile 1979tuo Renzo Vespignani

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