Dario Micacchi

Il lungo sguardo di Giuliano Pini

Non accade quasi più, oggi, tale è il decadimento dell’attività critica che ha portato il mercato d’arte con i suoi clan corrotti e servili, il suo impero pubblicitario, il suo consumo rapidissimo e cinico delle opere e degli autori, che si riesca a seguire liberamente, disinteressatamente, e nel cuore del suo farsi forma, per un anno e più, il lavoro di un pittore, così legato alla concretezza del supporto e dei materiali, ma anche tanto inafferrabile e imprevedibile nella germinazione e nello strutturarsi dell’immagine: da quel momento unico e irripetibile quando, nel mezzo di un discorso, allo studio o al tavolo d’una trattoria, tu vedi una prima immagine affiorante dal profondo che gli passa come un fantasma in fuga dentro l’occhio, fino all’altro momento stupefacente e magico che il gran fiume precipita per mesi e mesi di sensi e di idee, tra realtà orrida e segno di liberazione, tu lo vedi fissato, anzi come rappreso e pietrificato, disegno e colori furenti e amorosi, in immagini. Ho avuto la fortuna e l’emozione di vivere tale rapporto con Giuliano Pini: io che, giorno dopo giorno, venivo da un’esistenza quotidiana e da una storia sempre più terribile e angosciante; lui che, per avere radici esistenziali tenacissime nella società e per il modo schietto di sentirla e viverla da proletario, come me pativa dell’esistenza, fin quasi a soffocare, ma tutto di sé restituiva costruendo, per vie solo a lui praticabili, immagini liberatorie e, fatto davvero sconvolgente, sempre dando al mio sguardo breve e preso dal panico, una gittata lunga e serena in un luogo e in un tempo altri, dove tutte le verità erano infinitamente più vere ma anche tutta la fatica di vivere e il panico e la paura della morte e tutto l’immane desiderio di li­berazione trovavano un riscatto come fossero immerse e rigenerate in uno stermi­nato flusso di energia, ora forma di fiamme divoranti ora forma d’acque vorticose e purificanti: un flusso portante un disegno labirintico ininterrotto e colori di eruzione, solari e notturni, risalenti da profondità psichiche abissali fino a formare un’onda pittorica di una travolgente qualità musicale la cui intensità sentivo e vedevo rafforzarsi passando attraverso le trasparenze di certi diamanti di Wagner e anche di Mahler. Questo l’antefatto di quel mio transito dalla fatica del vivere e dal panico dell’esistenza alla percezione, datami da Giuliano Pini col suo ciclo di dipinti e disegni coi quali ha costruito questo « Edificio del Sogno », di quello che ora posso serenamente definire il ritmo della catastrofe. Per rendere il nostro mondo attuale meno opaco, per far trasparenza, Giuliano Pini ha avuto bisogno di creare la visione stupefacente del lontano di un luogo allo stesso tempo evocatore di un già accaduto e prefiguratore di qualcosa che può accadere: un luogo del figurare storia ed esistenza apparentemente lontano dal presente, un luogo mitografico, e qui è avvenuto il suo incontro con i luoghi e le figure di Wagner (e anche di Mahler) – ma li portava dentro di sé da lungo tempo – incontro che si è trasformato in una provocazione grandiosa per la pittura e l’immagine del dipingere. Io credo che la sintonia si sia stabilita non nell’orecchio ma nell’occhio quando sempre più serratamente Giuliano Pini ha scoperto e usato, nella costruzione mitografica delle immagini « wagneriane » un procedimento figurativo e costrut­tivo basato sul ritmo, pittoricamente musicale e sempre in tensione, di « disso­luzione/concentrazione » e di « intensificazione/crollo ». È stato Theodor W. Adorno a parlare, per la IX sinfonia di Mahler di « ritmo della catastrofe » e, per Alban Berg, essa « è situata completamente nel presagio di morte » è « l’espres­sione di un ineffabile amore per questa terra, il desiderio di viverci in pace e di far sprigionare ancora la natura fin nelle sue più profonde profondità – prima che venga la morte. Poiché questa giunge inarrestabilmente ». È grandiosamente tipico, prima di Wagner poi di Mahler, di violentare l’orchestra al fine di ottenere una intensificazione che infrangesse tutti gli stili precedenti per costruire uno stile mu­sicale come « mondo con tutti i mezzi che erano a disposizione » (Mahler): un mondo musicale che sembra sfuggire loro nella visione di un gigantesco fallimento. Quelle oscillazioni tra società e individuo che erano così tragiche già ai giorni di Wagner e di Mahler, sono sentite fino allo spasimo da Giuliano Pini che sa, per sé e per gli altri, di procedere come un greco, come un rinascimentale ma con la carne tesa sullo scheletro, evitando voragine dopo voragine e con la consapevolezza di chi guardi in un cannocchiale e vi scorga la propria fanciullezza e quella dell’umanità come il luogo di possibilità perdute o prigioniere. Ecco, allora, queste vorticose e fiammeggianti sublimi immagini di Giuliano Pini dove l’Olandese Volante, Tristano, Isotta, Amfortas, Parsifal, Kundry, Wotan, Brunilde e gli altri sono le figure-forza di una grandiosa energia del desiderio che finisce in morte. E la liberazione, se c’è, passa per la morte. La rappresentazione della morte e la prefigurazione dell’Apocalisse ha germinato da sempre nuovi semi nella pittura d’Occidente. Giuliano Pini, s’è accennato, ha scoperto un modo di dar forma a flusso – ed è su tale scoperta che ha agito come elemento scatenante la musicalità di Wagner (e quella più segreta di Mahler) – che è soltanto suo e sa usare in modo splendido, figurativo-costruttivo, il ritmo di « dissoluzione/concentrazione » e « intensificazione/crollo ». In tale ritmo dionisiaco e funebre, la linea, sul corpo delle forme che in un punto germinano e in un altro marciscono, è un poderoso, fantastico complesso sistema arterioso-venoso: tutto il corpo assai « tattile » dei colori, che vanno dal rosso arancio solare al bleu-verde notturno e acquitrinoso, ne è potentemente irrorato. Non c’è un altro pittore d’oggi che abbia trovato una qualità esistenziale-musicale alla linea pittorica (segno che corre animato da una possente ed enigmatica anato­mia) come e quanto Giuliano Pini e ne abbia spinto il delirio lirico fino al limite di rottura. Senza tale linea ed il ritmo della linea i colori sarebbero nebulose nello spazio, la figure non avrebbero queste forme superbe di desiderio e di morte, non ci sarebbe questa musicalità suprema del decollo e dello sprofondamento che lascia galleggiare in superficie frammenti di figure umane come fiori giganteschi. Certo, la prefigurazione di Giuliano Pini ha sottilissime radici – ma quanto tenaci-nella memoria di una bellezza continuamente violata. Botticelli ad esempio, di cui Taine diceva « bellezza aureolata e sofferente delle sue creature precoci e nervose, tutte anima e spirito, che promettono l’infinito ma non sono sicure di vivere ». E Michelangiolo per il quale l’umana bellezza fatta ti­tanica si offre indifesa nel sonno o al risveglio pacifico e mette in mostra pauro­samente tutta la sua fragilità proprio quando si esibisce come anatomia che regge l’universo. E Pontormo smarrito, tarlato dal panico e dalla nevrosi che col Cristo deposto depone anche tutto il titanismo classico rinascimentale e ti pianta addosso i primi sguardi attoniti e interroganti della pittura dove di titanico c’è solo l’ango­sciata esistenza. E Leonardo inappagato e che cerca l’ombra, che osserva analitica­mente le forze che muovono l’acqua e l’aria e ne scopre il ritmo, la meccanica, e da vecchio, in terra francese, fa quei « disegni del Diluvio » dove le stesse forze della natura che aveva osservato e rappresentato senza deformazione le vede e le rappresenta come le forze della fine del mondo, fine che ha un suo ritmo, una sua musicalità. E Grünewald che riesce a fissare ad una ad una centinaia di spine nel corpo putrefatto di Cristo, lì, a Colmar, con quel rosso della veste della Maddalena che urla come nessuno ha mai urlato fino a Van Gogh e a Munch. E poi Dix, così intensamente e a ragione amato da Giuliano Pini, per quei corpi putridi di puttane assassinate per « amore » e per quei corpi di soldati seccati come Cristi da niente sui reticolati piantati a vigna della guerra tedesca. E, infine, Schiele con quella ma­lattia che sempre nasce dal sesso e invade il cervello e che ti riempie gli occhi di pianto per quel suo erotismo pazzo da lager. E da Schiele Giuliano Pini fa di­scendere l’amore per quel Vespignani che si mette a far lezione di anatomia col segno mentre i più dicono messa o portano corone all’altare della patria. Certo, è ben capace di memoria il « ritmo della catastrofe » che ha ossessionato il gran liri­smo del ciclo « wagneriano » di Giuliano Pini. Ma per avere il senso tutto attuale della sua pittura prefiguratrice e mitografica è alla musica, ancora una volta, che bisognerà far capo, a quella chiusa di infinita melanconia che Theodor A. Adorno, come lapide indistruttibile, dedica alla musica di Mahler (e non è importante che non abbia capito gran che di Wagner): « … La musica confessa che il destino del mondo non dipende più dall’individuo, ma sa anche che questo individuo non dispone di alcun contenuto che non sia suo, per quanto infranto e impotente. Per questo le fratture dell’individuo sono le scritture della verità. In esse il movimento della società si presenta negativo come nelle sue vittime. In queste sinfonie anche le marce vengono intese e riflesse da colui che esse travolgono con sé. Solo quelli che sono usciti dai ranghi, i calpestati, l’avamposto perduto, il soldato sepolto al suono delle belle trombe, il povero tamburino, gli uomini totalmente privi di li­bertà incarnano per Mahler la libertà. Senza nulla promettere, le sue sinfonie sono ballate della disfatta: che « presto sarà notte ». Se ho insistito su questo passo del « Mahler » di Theodor W. Adorno del 1960 è perché mi sembra che ancora illumini fortemente i nostri giorni e le nostre ricerche di una liberazione in forza di quella grande intuizione sul tempo storico che « le fratture dell’individuo sono le scritture della verità » e che « anche le marce vengono intese e riflesse da colui che esse travolgono con sé ». Ora, senza voler ingabbiare sociologicamente il fiume ora vorticoso e notturno ora solare e sontuoso di immagini che viene fuori dal lungo sguardo di Giuliano Pini, bisogna dire che le forze che lo muovono e spingono verso luoghi mai visitati dalla pittura ove giocano la fiamma e l’acqua, la tensione e la quiete, con furiose incandescenze e combustioni e con lenti e notturni inabis­samenti, queste forze, fratture, fratture-scritture della verità, vengono al pittore dalle fratture di un uomo, di un intellettuale che vive intensamente e l’esistenza e la storia e paga un costo umano assai alto – basta guardare la tagliente « tattilità » delle mani e dei volti.

Da pittore ha sentito nella musica di Wagner quelle fratture, addirittura in­gigantite nei « crepacci » e nei « burroni » d’una ciclopica mitografia moderna (capi­talistica), e dalle fratture venir giù, scorrere prima in rivoli e poi in possenti cor­renti impulsi assai profondi di desiderio e di morte, individuali e collettivi. Andrebbe fuori strada chi volesse vedere Giuliano Pini come un magnifico e immaginifico
«   illustratore » delle figure e dei luoghi della mitografia wagneriana. Rapporti con la musica, da lirico a lirico, in modi esistenziali che si rapportano a modi di sentire di vivere la storia e quel che la storia ci rovescia addosso di inatteso, Giuliano Pini li ha sempre avuti, da anni. I soggetti in lui sono scafi sottili e l’immaginazione che li spinge verso luoghi mai visitati è una immensa vela: spesso il vento che la gonfia è « bagnato » di musica. Mi viene in mente, per quella enigmatica gaiezza che sempre porta la musica prima che scoppi la tempesta o si sprofondi in voragini abissali, quel che borbottava a Monaco, nel 1864, il vecchio direttore Franz Lachner alle prese con « L’Olandese volante » protestando « contro il vento che ti soffia in faccia tutte le volte che apri la partitura ». Qualcosa del genere, ma liricamente molto struggente e piacevole, capita con i dipinti musicali di Giuliano Pini che tale qualità hanno sempre posseduto, anche quando l’immagine era ferocemente ironica e di critica sociale di classe, ma che a una certa data, intorno al 1969, s’è fatta esplicita e strutturante. Io la ritrovo in dipinti anticipatori: « Uomo velato e drappo rosso » del 1969, « L’alluvione (avresti potuto vedere) » del 1976, « Il battelliere » del 1974, un primo capolavoro la cui immagine opera il « salto » nel luogo delle fiamme e delle acque che sarà tipico del ciclo wagneriano, « Ritratto immaginario di Tortelier » del 1977, « Morte di Ciaikowski » del 1978, « Omaggio a Blok » del 1979, « russo volante » del luogo della rivoluzione d’Ottobre, « Il punto da raggiungere » del 1979, che è l’immagine sconvolgente, forse dilatazione iperbolica dell’alluvione fiorentina e immagine del tempo che passiamo, e che sta al principio immaginativo delirante del ciclo wagneriano e segna il sublime transito poetico dal quotidiano al luogo simbolico dell’accadimento, dell’espressione e della rifondazione mitografica e mitopoietica del dipingere.

La laguna alluvionale che in « Il punto da raggiungere » sommerge la città fiorentina-veneziana e dove un demone neomichelangiolesco trascina a inabissarsi il lenzuolo-bara dove giace, con tutte le sue cose care, l’uomo morente, è già il luogo delle apparizioni e delle rivelazioni. È un moderno dipinto visionario molto italiano ma storicamente legato al romanticismo apocalittico della « Zattera della Medusa » di Géricault. Ed ecco questo è l’uomo piagato nella laguna putrida che anticipa Amfortas dalla ferita che non chiude mai fino all’ingresso di Parsifal. Dunque il luogo, il flusso, la fiamma, l’acqua. Ho ricordato tra i dipinti musicali « Omaggio a Blok » del 1979 e per chiarire quali e quanti fili si intreccino nell’immaginazione del luogo e del flusso di Giuliano Pini devo trascrivere quei melanconici (nel senso chirichiano metafisico) versi scritti dal russo a Venezia nell’agosto 1909: « Un vento gelido dalla laguna. / Silenziosi feretri di gondole. / Stanotte io sono steso – infermo e giovane – / accanto alla colonna del leone. / Con un canto di ghisa, sulla torre, / battono i giganti mezzanotte. Nella laguna della luna annega / San Marco la sua adorna iconostàsi. / Nell’ombra della galleria ducale, / appena rischiarata dalla luna, / furtivamente passa Salomé, / recando la mia testa insanguinata. / Dorme la gente, i palazzi, i canali, / solo il passo slittante del fantasma, / solo la testa su quel piatto nero / guarda mesta la tenebra dintorno ». L’affinità con la potenza di sogno e di visione di Giuliano Pini è allucinante e, mi sembra, chiarisce lo « slittamento » del passo poetico dal quotidiano violento e selvaggio alla maniera di Otto Dix ai luoghi del ciclo wagneriano dove è possibile sentire con tutta l’esistenza il flusso della storia. Come si può dire simbolicamente meglio della Russia rivoluzionaria che con l’immagine veneziana del passo slittante del fantasma di Salomè che reca la testa insanguinata di Blok e che ha sguardo ed è sola ad averlo? In questo volume, voluto così e curato dall’amico Giuliano Allegri e che è splendido documento di un amore e di una dedizione a un grande momento creativo di un pittore capito nella sua profondità e nella sua estensione, si pubblica un dialogo in due tempi tra Giuliano Pini e me ove emerge chiaramente come e quanto, dipingendo, egli si faccia fuoco e acqua e giorno e notte così trapassando un po’ in tutte le sue figure visionarie. Credo, però, che una gli sia particolarmente cara: quella di Amfortas con la sua ferita, la sua fatica di vivere, la sua melanconica attesa. Non dico che sia un autoritratto; dico che è una figura eccezionalmente amata, una figura attraverso la quale Giuliano Pini più profondamente ha sentito il mondo di oggi, come il mondo del desiderio e dell’attesa. Adorno, sempre per Mahler del « Canto della terra » e dei « Kindertotenlieder », parla di una speranza del divenuto come slittando sul tempo quando Marx parlava di una speranza fondata sulla disperazione del presente. Certo, se non l’avessimo qui davanti a noi dipinta, non potremmo mai pensare che si possa dipingere un’immagine del nostro presente così disperata qual’è il « Bagno notturno di Amfortas » col fiato della morte addosso e una gran­diosa anatomia vinta e livida sprofondante nella notte liquida blu e verde. Eppure, è difficile pensare a un’immagine visionaria più sontuosa, più allusiva alla infinita ricchezza del mondo, ricchezza soltanto abbuiata da quella notte, da quella ferita, da quel dolore e da quella fatica di vivere. Clamorosamente tale ricchezza di un mondo altro esplode nelle immagini con le bellissime figure di giovani e dal loro rapporto sereno e dolce con i grandi vecchi. È una ricchezza che si manifesta nella straordinaria anatomia, nel ritmo misterioso dei capelli, nelle vesti metamorfiche che sanno di fiamme e di onde, nei canestri di frutta con melagrane e grappoli d’uva di perle, diamanti e pietre dure. Pure immersi in un mondo remotissimo da quello della realtà quotidiana, noi ci rendiamo conto che soltanto in forza di tale allonta­namento possiamo servirci di un lungo sguardo sulla trasparenza del profondo presente e vedere personificate le energie che lo modellano incessantemente e che anche la luce è quella di un fuoco cosmico o abissale come fosse incandescenza di un magma giù nel cuore dell’uomo e della storia, un magma che a volte esplode, in « Morte di Tristano », « L’addio di Wotan » e « Il crepuscolo degli Dei », e tutto trascina in una immane combustione o che quel folle poeta dell’Olandese volante – ma non è il russo Blok?- tenta di dominare con la sua energia, col suo gesto che tiene tanto della melanconia quanto del dominio. Aveva ben ragione Henri Matisse a dire che « … ogni opera è un insieme di segni inventati durante l’esecuzione e per i bisogni del singolo caso. Fuori della composizione per cui sono stati creati, questi segni. non hanno più alcuna capacità di azione… ». Quando si vien via dal delirio visionario del disegno e dei colori di Giuliano Pini che, soli­tario, ha costruito tutta questa splendida anatomia erotica e corrosa dalla malattia, dalle fiamme e dall’acqua notturna e putrida allora la vita di tutti i giorni, le nostre strade, i nostri gesti, i nostri sguardi, questo nostro snocciolare i giorni da un mas­sacro a un altro, di colpo ci sembreranno abbuiati e senza energia. Una volta tanto un pittore e un modo di dipingere hanno illuminato la vita e le forze che la mo­dellano fino allo spasimo che stacca la carne dalle ossa: provate a ricordare cosa c’è della vostra vita in questi gesti del desiderio o del dolore che Giuliano Pini col suo lungo sguardo ha tirato via da infinite vite e inseriti nel flusso di un’imma­ginazione visionaria e mitopoietica.

È l’anatomia, sono i corpi che mandano musica, e si potrebbe anche parlare del « flauto di vertebre » usato da Majakowskij, dando loro una musicalità wagne­riana (e anche mahleriana). Non dimenticate, però, che la testa di Giuliano Pini, come quella di Blok, guarda dal piatto che porta una spietata Salomé col suo passo notturno e slittante in una Venezia buia e che affonda: potrebbe essere questo il costo umano che si deve pagare per il transito « rivoluzionario » a un luogo altro. Perché la moderna ferita di Amfortas potrà chiudersi soltanto quando riusciremo a raggiungere questo luogo altro.

DARIO MICACCHI

Roma, 18 febbraio 1982

(da « L’edificio del sogno » Ed. La Bezuga – Firenze 1982)

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