Giulia Ballerini

Percorso di un artista

L’ arte può essere manifestazione razionale di un principio consapevole oppure strumento liberatorio di qualcosa di inconscio e profondo che esplode sulla tela attraverso i segni, i colori, le forme e i volumi.
Dire in quale delle due categorie risiede l’arte di Giuliano Pini sarebbe troppo ristrettivo e poco appropriato, come ogni definizione che restringe il fare artistico in schemi precostituiti.
Il lavoro di Pini è difficilmente ascrivibile ad una corrente stilistica; è uno stile del tutto personale, portato avanti in una propria solitudine di ricerca e maturazione, con libertà poetica, come recita il titolo della presente mostra retrospettiva, a un anno dalla sua scomparsa. Questo percorso esclusivo ha comunque risentito del clima culturale fiorentino degli anni Sessanta e Settanta, in cui anche altri artisti a lui vicini, come GianCarlo Marini, Piero Nincheri, Piero Tredici e Sirio Midollini, mostrano intenti comuni e tangenze stilistiche. Il Ritratto di Enrico Pratesi (cat. 34), presidente del Circolo Unione Operaia, che si trova oggi alla Casa del Popolo di Colonnata, è un ricordo tangibile e una testimonianza del legame che Pini instaura con il territorio sestese e in particolar modo con La Soffitta Spazio delle Arti, di cui Pratesi è stato l’ideatore e in cui Pini espone per la prima volta nel 1964 insieme agli amici artisti Tredici e Marini. E, possiamo aggiungere, in cui Pini torna oggi a esporre con la presente mostra, la prima dopo la sua recente dipartita.
Giuliano Pini, nato a Firenze nel 1935, si forma come autodidatta ammirando le grandi opere d’arte che la città di Firenze, dove vive e lavora, gli offre. È interessante come il lavoro primigenio di Pini sia notato e apprezzato da artisti: Arrigo Dreoni, Leonardo Papasogli e il grande Ottone Rosai. La prima mostra a cui Pini partecipa è quella alla Galleria Santa Trinita di Firenze, nel 1957, insieme a Midollini e Pecchioli, presentato da Adriano Seroni; il primo commento critico sull’operato di Pini ventenne che esce sulla stampa del tempo è ancora una volta quello di un artista, Giovanni Colacicchi – maestro autorevole del Novecento e allora critico de “La Na¬zione” – che lo definisce “ragionevole, appassionato, fornito di penetrazione psicologica, di volontà costruttiva […] uno dei più promettenti giovani che abbiamo incontrato”.
Il 1957 è anche l’anno dell’VIII edizione del Premio del Fiorino, edizione che presenta una sostanziale modifica del regolamento puntando ad ampliare nella mostra nazionale la rappresentatività del panorama artistico: aprire l’invito a dieci maestri italiani, a dieci pittori appartenenti a gruppi regionali selezionati, e a venti giovani. Tra questi, c’è anche Giuliano Pini, che riceve il “Premio Vincenzo Cabianca”. Tra le rappresentanze regionali e i giovani si annovera un incremento degli artisti attivi nell’area dell’Informale, mentre i maestri che partecipano alla mostra del ’57 sono: Pi-randello, Mafai, Guttuso, Levi, Cagli, Cassinari, Morlotti, Melli, Guidi e Cantatore. Il “Premio del Fiorino e Città di Firenze” viene in quell’anno vinto da Fausto Pirandello con una natura morta Biscotti e liquori, in cui è evidente il superamento dello studio del reale a favore di un maggiore afflato lirico. Se dunque veniva preferita quella peculiare sintesi di astrazione e realtà, il clima in cui si trovava a emergere il giovane Pini mostrava tutta la sua consonanza con l’astratto-concreto teorizzato da Lionello Venturi.

Il primo critico a scrivere su Giuliano Pini è Mario De Micheli in occasione della sua prima personale nel 1961 alla Galleria Nuova Corrente di Firenze, avendo il critico d’arte preso parte attiva nel movimento di “Nuova Corrente”, capitanato da Xavier Bueno. Come esprime il nome stesso, la galleria è foriera degli artisti che appartengono a una nuova stagione stilistica (Manfredi, Midollini, Mili, Papasogli, Pecchioli e Tredici), uniti dal desiderio di un profondo rinnovamento, in contrapposizione alle derive anti-figurative del momento e alla diffusione dilagante dell’Informale.
De Micheli seguirà il lavoro di Pini ininterrottamente per quasi quarant’anni, tornando svariate volte a scrivere su di lui, curandone le mostre, organizzando conferenze e monografie. Il critico – che Mario Luzi definì l’interprete «del mondo figurale di Giuliano Pini», il suo «più attento e costante cronista e chiosatore»(1) – nei suoi testi più volte ricorda il primo incontro con l’artista, «un ragazzo magro e timido», che andò a trovarlo a Milano, con un fascio di disegni sotto il braccio, «disegni netti e incisivi, già di una personalità definita», nonostante fosse «un giovane uscito da non troppi anni dall’adolescenza»(2).
Le opere che Pini espone nelle mostre degli anni Sessanta sono popolate da figure allucinate, dalle forme spiccatamente grafiche e audaci, che hanno subito la fascinazione della Secessione viennese, in particolare dell’opera di Egon Schiele. Il disegno Autunno (fig. 1) del 1967, con il profilo del corpo femminile dai seni flaccidi e allungati, gli omeri appuntiti e le natiche scarnificate riporta alla mente la figura della donna anziana ne Le tre età della donna (1905, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma) rivisitazione, in chiave simbolica, delle tre fasi della vita femminile, di Gustav Klimt, altro artista a cui Pini deve aver guardato.
Ma il pittore al quale Pini è più volte paragonato è Otto Dix, per la drammaticità delle immagini, la critica feroce dei costumi, la denuncia cruda e impietosa dei corpi decadenti (Nozze d’oro, 1966, fig. 2; La coppia umana, 1972, fig. 3), per le forme taglienti e tormentate. Pini stesso aveva dichiarato che la Nuova Oggettività tedesca era stata per lui un amore schietto e autentico; questa pittura intensa contiene in nuce il fare anatomico lineare che si ritroverà anche nella pittura successiva dell’artista, alla fine degli anni Settanta.
Ma Pini, da autodidatta e fiorentino, affonda le proprie radici artistiche nella cultura manierista, ammirando le opere di quei giovani artisti che alla ricerca della “maniera” dei grandi Raffaello, Leonardo e Michelangelo, emersero con soluzioni eccentriche e stravaganti per l’epoca, per non rimanere schiacciati dal peso della triade dei giganti del Rinascimento maturo. Sono quegli artisti che Pini definiva i “disinteressati” maestri della tradizione rinascimentale. E nelle sue opere si percepisce questa derivazione: nei colori violenti e antidescrittivi emerge il ricordo dei toni affocati di Rosso Fiorentino; le forme anatomiche aguzze nei dipinti di Pini evocano le mani affusolate e adunche dei santi della Pala dello Spedalingo, mentre le membra dove emergono ossa e muscoli come fossero veli trasparenti riportano alla mente dello spettatore i corpi dei dolenti di Pontormo, che Pini poteva ammirare nella cappella Capponi in Santa Felicita, in cui le vesti aranciate aderiscono perfettamente all’anatomia dei personaggi come guaine senza soluzione di continuità.
Il Pontormo di Santa Felicita ritornerà anche negli anni Novanta, nel quadro Pa-solini e il Pontormo di Santa Felicita (fig. 4), 1993, con il volto del personaggio accovacciato che nella celebre tavola tiene le gambe di Cristo morto. Nel fondo del disegno Due amici, un gatto e il Pontormo (1994-1995, tecnica mista, cat. 87) le figure dei celebri putti dalle chiome fluenti, assieme alla figura di Bacco, sono riprese dalla lunetta ad

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affresco all’interno del salone di Leone X nella Villa Medicea di Poggio a Caiano. E ancora la stessa citazione del Bacco ritorna in Tono Zancanaro e il Bacco del Pontormo del 1995 (fig.5).
La nudità del putto in varie opere dei primi anni Settanta (Il putto o Il putto e il cane, 1972, fig. 6, o ancora Il nuovo Cristoforo, 1972, fig. 7) ricordano nelle forme la scultura del Nano Morgante nel Giardino di Boboli, con tutta la sua strabordante corposità, trasfigurata nei colori accesi e innaturali di Pini. Le libere esperienze pittoriche degli “outsider” fiorentini del primo Cinquecento ammirate da Pini sono infatti dissimulate all’interno del suo operato artistico: sono suggestioni velate che vengono evocate dalle sue figure, senza mai essere citazione pedissequa; il risultato finale è che quelle inconfondibili figure appartengono allo stile identificativo di Pini, tuttavia l’occhio di un osservatore attento può ricollegare quel disegno così nitido e preciso e quei ricercati cangiantismi alla tradizione fiorentina.
Alla teatralità delle evocazioni manieriste Pini affianca anche il patetismo e la con-certazione drammatica delle incisioni di Dürer, altra fonte artistica molto ammirata e da cui la sua sensibilità ha attinto svariate volte.
Ogni mostra di Giuliano Pini — a cadenza regolare di una all’anno (Galleria Il Portico, Cesena, 1969, 1971-72; Galleria Il Tridente, Grosseto, 1972; Galleria della Rocchetta, Parma; Galleria Solferino, Milano; Galleria d’arte Schreiber, Brescia, 1973) — riporta agli inizi degli anni Settanta volutamente lo stesso, persistente nucleo creativo popolato dai soliti, ricorrenti personaggi, tra cui Tina, Bagnante, I miei genitori.

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Sono le opere nate nello stretto giro di pochi anni, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, in cui il segno grafico di Pini inizia lenta-mente a cambiare: le linee di contorno si aprono, si spezzano, rimangono aperte; le forme si fanno più morbide e flesse, quasi liquefatte, come se avvenisse una fluidificazione delle figure, risucchiate da inquietanti arti che appaiono come sinistre presenze e le afferrano dai capelli (Giorni del malessere, 1970, fig. 9). Si registra in questa fase un maggiore grafismo e una fusione tra le figure e il contesto in cui esse sono immerse, tanto da creare un tutt’uno inscindibile e astratto, fantasmagorico (Studi per la morte di Ciaikovski, 1972, disegni a matita) e anticipatore di uno stile che si ritroverà nell’opera successiva di Pini. Quel «labirintico gioco d’immagini», come lo definisce De Micheli in occasione delle personali di Pini a Milano, poi a Parma e a Brescia nel 1973, sarà sempre più caratterizzato da forme vorticose e fluttuanti, linearismi eleganti, quasi degli arabeschi sottili e contorti che affondano le proprie radici nel clima del Simbolismo europeo e nella grafica Art-Nouveau, per poi far fiorire quel “simbolismo intellettuale e psicologico teso ai limiti dello spasimo”(3), tutto suo.
Un figurativo simbolista sui generis, dunque, quasi si potrebbe dire un anticipatore di quel genere fantasy che a partire dagli anni Ottanta del XX secolo è andato tanto di moda. Corpi sinuosi, dalle mani affusolate e scheletriche; corpi riconoscibili ma lontani dalla realtà, pur partendo sempre da essa, algidi e come astratti nel loro essere distanti dal mondo fenomenico. Presenze fantastiche, talvolta inquietanti e angosciate, sembrano approdate in quell’isola felice di cui Pini sostiene l’esistenza, un luogo in cui l’uomo – afferma – possa esprimersi fino in fondo. Sempre Mario De Micheli, nel 1973, che da circa quindici anni seguiva il lavoro dell’artista nello studio fiorentino all’ombra del Bargello, scrive: «[egli]cerca, attraverso il cupo fiammeggiare dell’immaginazione, un “altro luogo”, una ragione poetica dove il respiro dell’essere non soffra di coercizioni […] Ogni tela è un puro traslato delle potenze dell’anima che non rinunciano a creare il regno della propria libertà»(4).

Fig. 9

Nel 1974 con la mostra alla Galleria Santa Croce di Firenze, diretta da Laura Gori Melani, si registra un ulteriore passaggio stilistico: un’apertura potremo dire quasi floreale, di botticelliana memoria, incorniciata da un maggiore e sontuoso decorativismo, su altri temi (l’amore, il viaggio, l’abbraccio) che abbandona le atmosfere cupe e angosciose dell’opera precedente, grazie a reminiscenze autobiografiche (L’amore che ti diedi, 1973, (fig. 11); Tenera è la notte, 1974; Notte d’estate, 1974) aventi come soggetto la coppia di amanti. Inoltre, si nota un cambiamento negli sfondi delle opere con l’inserimento ricorrente dell’elemento dell’acqua – un leitmotiv nella serie delle opere presentate in quella mostra fiorentina – e del paesaggio veneziano (Ritratto immaginario, 1973; Sul battello, 1973; Sul lago, 1973, cat. 36; Venezia, un addio, 1974, (fig. 12); Fine dell’estate, 1974; Guardando lontano, 1973), che vanno a sostituire le ambientazioni neutre o informi degli anni precedenti.
Nel 1975 si tiene la mostra alla Galleria Forni di Bologna, dove Pini espone tre versioni di un’opera ritenuta da lui stesso fondamentale per il suo percorso artistico: Il Battelliere, 1974 (fig. 13), un gondoliere che conduce gli amanti ma con l’ambiguità di un traghettatore acheronteo. Si affacciano nuove tematiche ancora, un maggiore senso di decadenza – sempre con Venezia che fa da sfondo – e di morte (La morte e la fanciulla, 1975, fig. 14): l’unione di questi due temi, la città sull’acqua e il sonno eterno, non possono non farci pensare a Morte a Venezia di Thomas Mann, il cui personaggio protagonista, com’è noto, si ispira in parte al compositore Gustav Mahler, di cui Pini era un grande ammiratore, di lui, come di tutta la musica tedesca, come vedremo più avanti: la musica incide tantissimo sulla sensibilità del pittore, l’ascolto è un’inclinazione naturale e una consuetudine profonda.
Nelle opere esposte alla mostra bolognese è ancora più evidente la forza della fervida immaginazione dell’artista, che libera sulla tela le espressioni più recondite della sua anima: vi è un’atmosfera surreale e onirica che prima non c’era, come sottolinea la presenza dell’angelo (o demone caduto?) nell’opera Sognare, 1975, dove già il titolo è di per sé indicativo. I contrasti fra nero e bianco, l’esaltazione della linea astratta e la dialettica di linee marcate nella figura senza rilievo della donna in La morte e la fanciulla, 1975, quasi una moderna Salomè, ricorda la grafica di Beardsley.
Due anni dopo, Giuliano Pini tornerà a esporre alla Galleria Santacroce. In alcune opere qui mostrate, come Ritratto di signora conosciuta, 1976 e La signora con i cani, 1976 (fig. 15) ritorna quel gusto per l’ironia e il grottesco, il realismo crudo e tragicamente impietoso che richiama ancora una volta alla mente le opere della Neue Sachlichkeit e di Otto Dix soprattutto.
Nel 1977 si tiene la prima grande antologica di Giuliano Pini: è ancora una volta il critico che lo ha scoperto e seguito più da vicino a presentarlo, Mario De Micheli, esponendo presso la Sala di S. Ignazio nel Comune di Arezzo le trentacinque opere più importanti e significative dell’artista, che dagli esordi fino a quel momento erano state esposte nelle mostre che abbiamo passato in rassegna fino a qui. Nel catalogo, per le Edizioni d’Arte Santacroce, oltre alle riproduzioni di tutte le opere in mostra, si trovano riuniti i cinque testi critici che De Micheli aveva redatto per Pini dal 1961 al 1975 e tutta l’antologia critica sull’artista, ovvero i testi critici di Fortunato Bellonzi e Franco Solmi presenti nei cataloghi delle precedenti mostre (Galleria Santacroce, Firenze, 1974; Galleria “32”, Milano, 1975) ed estratti dagli articoli sulla stampa a firma delle penne più note e prestigiose, tra cui, come abbiamo già ricordato, Adriano Seroni e Giovanni Colacicchi, Dario Micacchi, Mario Novi, Dino Villani, Tommaso Paloscia, Vanni Bramanti, Corrado Marsan, Gianni Pozzi, Giuseppe Nicoletti e molti altri ancora.

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«Da un certo punto in là non c’è ritorno: quello è il punto da raggiungere», afferma Giuliano Pini. Il punto da raggiungere è anche il significativo titolo di un’opera cruciale nell’iter pittorico dell’artista, che segna un nuovo inizio nella sua pittura, un cambiamento di rotta, un punto di rottura. Questo dipinto darà il titolo anche all’omonima mostra del 1979 presso la Stamperia della Bezuga a Firenze, in cui l’artista consanguineo Renzo Vespignani pubblica una lettera aperta all’amico Pini. Nel giugno 1979, su “La Nazione”, Carlo Ludovico Ragghianti definisce Pini un «grafico erede di Botticelli e osservante di Michelangelo», «fenomeno quasi incredibile» e «iperonirico» nell’espressione, che parla di attualità ed è giunto «a una trasparenza inflessibile e insieme
a una declinazione struggente del disegno per vero apollineo, ondoso ed eruttivo tra le immagini velate della morte», che denuncia «la storia tutta, col suo schiacciante caricodi promesse deluse», per affermare «la ripresa di contenuti di cui per quasi trent’anni è stata clamorosamente proclamata la decadenza o l’irrevocabile fine, e che invece re stano i soli pregnanti d’avvenire». L’autunno del 1979 porta ad Amsterdam, alla Galleria Forni, il prodotto di

un’estate prolifica, una sorta di risveglio dei sensi: «dopo un lungo inverno, dedicato alla preparazione di una mostra sull’allegoria della morte», afferma Pini, si verifica quello che lui definisce «un travaso interno», una «visitazione»; l’estate porta una ventata di aria fresca, una rinnovata energia produttiva: «la consapevolezza del fug¬gevole, ma intuito sogno, di ciò che poeticamente avrebbe potuto essere, divenne sti¬molo creativo. Era l’Estate, la lussureggiante bellezza, l’amore. La morte, nella sua os¬sessione quotidiana, si dileguava…». Come dimostrano anche i titoli stessi (Una donna… l’estate; Concerto per l’estate; Saluto all’amore, Dopo l’amore; Tristano e Isotta) la serie delle opere presentate nella capitale olandese è un’affermazione dell’amore sopra la distruzione: protagoniste le teste femminili, eleganti e algide icone di botticelliana, ancora una volta, memoria, impreziosite da decori floreali e cornucopie ridondanti frutti e fiori, simboli di abbondanza e di una nuova rinascita. In mostra, presenti anche quattro ritratti, omaggio ai grandi ispiratori “espressionisti” di Pini: Otto Dix, Kate Kollwitz, Egon Schiele, e al massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale, Albrecht Dürer.
Gli Studi per il Parsifal (fig. 17) del 1981 apparsi alla mostra a San Casciano Val di Pesa sono l’ennesima dimostrazione della passione di Pini per il dramma musicale e soprattutto per l’autore più amato, Richard Wagner. Gurnemanz, Amfortas, Kundry, protagonisti del Parsifal, si uniscono ai personaggi delle leggende eroiche germaniche, Brunilde, la Valchiria condannata da Wotan (Odino), che dorme cinta d’elmo e corazza su un’alta rupe avvolta dalle fiamme, e che solo un eroe senza paura può destare e liberare dall’incantesimo.
Queste figure popolano le tavole esposte a Ferrara nell’importante mostra a Palazzo dei Diamanti nel 1982, dedicata all’«opera incantatrice di Wagner» per cui costruire «l’edificio del sogno». Così si intitola infatti la monografia stampata dalle Edi-zioni della Bezuga di Firenze per la cura di Giuliano Allegri, monografia che accompagnò il ciclo omonimo di opere in giro per l’Italia. In una conversazione, riportata in catalogo, con Dario Micacchi, Pini afferma: «C’è sempre qualcosa che mi spinge: è la vo¬glia di muovere tutto: questa frenesia del segno e questa irrequietezza, direi anche angoscia, che mi trovo addosso»(5).

Fig. 17

Il corpus di dipinti, disegni e acqueforti, che Micacchi definisce, avendolo visto nascere nel corso di un anno, «una straordinaria avventura pittorico-musicale dell’immaginazione», ha origine – racconta Pini – nel settembre del 1980: «dopo alcuni anni di lavoro limitati a tentativi oscillanti tra ragioni profonde ed impossibili comprensioni, mi sono deciso, in completa solitudine, a percorrere un tragitto nel solco del quale la fantasia ed il sogno edificassero, in un totale coinvolgimento, questa serie di immagini. La musica di Wagner ha contribuito, per interna combustione, ad illuminare squarci di visionarietà e remoti luoghi di dolcezza. Cosciente che tanta grandezza poteva solo in parte essere penetrata, in questi due anni è nato questo “Edificio del sogno” […] A chi guarda il giudizio: per me, nella consapevolezza che niente dura, la certezza dell’irripetibilità»6.
L’anno seguente la mostra ferrarese, Pini continua a presentare i dipinti e i disegni 1982-83 del ciclo “L’edificio del sogno”, questa volta a Roma, presso la Galleria Ca’ d’Oro: la mostra è dedicata alla sua musa e sposa Roberta, le pitture e le immagini sono andate ancora avanti sull’onda di «una grande energia pittorica», afferma Micacchi, che sale «dal profondo per dispiegarsi in figure costruite da un segno musicale, delirante, metamorfico. Nei disegni e nei dipinti che si sono aggiunti al primitivo ciclo è prevalsa la dominante dinamica e metamorfica al punto che il flusso si mangia la figura e una vibrazione ininterrotta fa pulsare la superficie dipinta. Il segno, che sia fuoco o acqua o vesti o tratti somatici, sovrasta la figura, delinea un flusso che porta lontano, un eros che si lascia andare musicalmente nello spazio”.
Come Lohengrin è figlio di Parsifal nel ciclo arturiano, così i disegni di Pini del 1984 con soggetto Lohengrin seguono il primo nucleo di opere dedicate alle leggende tedesche che ispirarono le opere di Wagner e che Pini aveva fatto iniziare, come abbiamo visto, proprio con Parsifal. Lohengrin, chiamato il Cavaliere del Cigno, ha una possanza quasi michelangiolesca; nei disegni del 1984, presentati alla mostra della Galleria Palazzetto Alamanni di Montevarchi, è evidente un titanismo delle figure (Cigno morente, fig. 18; Ippolito, 1984) che prima non c’era, una diminuzione del segno, seppur elegantissimo, all’interno delle anatomie, che libera i corpi umani da quel segno-flusso che rendeva come liquefatte tutte le forme.
Questa sorta di “neo-manierismo” del tutto personale lo si ritrova anche nei dipinti e disegni del 1985-86 (come Werther-Homenaje a Alfredo Kraus, 1985; Il ballerino e l’ombra del tempo, 1985; Il gesto, 1985-86, fig. 19) che manifestano un nuovo modo grafico di operare: il ballerino Antonio Gades e il cantante Alfredo Kraus sono lontani dal grande flusso di forme e colori del ciclo wagneriano; la linea si fa pura e potente e come afferma Micacchi: «[Pini] disegna ubbidendo a un ritmo interiore che è musicale, affinato sul passo di Gades e sul canto di Kraus: un disegno-linea di forza che porta all’evidenza nello spazio le energie di vita e di morte più profonde e segrete»(7).
Come abbiamo visto, il lavoro di Pini si articola principalmente in grandi cicli, quasi a cadenza decennale, che testimoniano il suo continuo studio e la sua incessante ricerca pittorica, dal “Il tempo ha le mani” del 1970 a “Il punto da raggiungere” del 1979, a “L’edificio del sogno” del 1982. Nel dicembre 1988 Pini presenta presso la Galleria Piero della Francesca ad Arezzo un altro, grande ciclo, dedicato al flamenco e alla cultura gitana. La sensibilità di Giuliano rimane ancora colpita dai passi di danza del ballerino e coreografo spagnolo Antonio Gades e dalle zarzuele cantate dalla voce del tenore Alfredo Kraus, oltre all’interesse per trasmissioni radiofoniche dedicate alla musica andalusa, tutte «sensazioni e conoscenze» – racconta lo stesso Pini – «che andavano ad accrescere quel rivolo creativo che si stava formando: un mondo nuovo si rivelava alla mia fantasia subito pronta a viaggiare al contrario del suo sedentario possessore. Fissare quei gesti ed interpretarli era quello che mi restava da fare. In quei gesti, in quegli atteggiamenti, in quel pensiero c’era qualcosa di magico. Quel modo di danzare come in atto di volarsene via mi parlava di assoluta libertà. La sfida e il rifiuto ad esorcizzare il tempo che consuma» (lettera ad Alfredo Kraus, Cavriglia, 15 marzo 1987). E così sono nate opere quali Seduzione, El duende, Mirarne, fig. 20, La sfida, cat. 55, L’invito, Gesti nel tramonto, Liberi come il vento, tutte del 1986-87.

Fig. 19
Fig. 20

L’accorato e incessante interesse per l’esistenza portato avanti da Pini nella sua opera fa nascere la serie dei “Ritratti immaginari e no”, dedicati dall’artista a «chi nel tempo mi accompagna». La serie sarà presentata nel 1989 alla Galleria Palazzo Vecchio di Firenze, non solo rivisitando un tema da sempre caro, ma lasciando riemergere anche quel personale espressionismo che lo aveva caratterizzato all’origine.
Tra il 1989 e il 1990 Pini lavora ad un ciclo sul «mito ritrovato», omonimo titolo della mostra nel Comune di Montemurlo, e sulla «mitografia moderna ed attuale», titolo della personale dell’aprile 1990 presso la Galleria Ca’ d’Oro di Roma, nel cui catalogo tornerà nuovamente a scrivere Dario Micacchi. Sulla tela dionisiaco e apollineo si incontrano attraverso la tragedia greca, Euripide e i miti di Teseo e il Minotauro.
L’invito di Renzo Melotti a far eseguire da Pini una serie di opere in onore della sua città, Ferrara, per il suo Studio d’Arte porta alla nascita di un nutrito corpus di disegni e dipinti, riuniti nella collana monografica “I grandi pittori a Ferrara”, che sarà presentato con il titolo Ferrara i personaggi, i miti, i fantasmi nel 1991. Mario De Micheli definisce l’impresa «una immersione nel tempo, nelle stagioni remote che hanno creato lo splendore, i miti e le leggende di questa prodigiosa città. L’incontro è avventura attraverso un’interiore adesione, per una sorta di naturale entropia, con quella fluidità che nasce solo dall’intuizione delle cose e della vita […] Non c’è momento, non c’è personaggio, non c’è simbolo o memoria di cui egli si sia dimenticato»8.
L’anno seguente l’Associazione italo-tedesca di Pescia, organizzando l’inaugurazione del “Mese Wagneriano” pone attenzione all’opera di Pini e all’interpretazione che l’artista ha avuto nei confronti della potenza della musica e della poesia di Wagner, cercando di tradurla in immagini attraverso la sua pittura per ben cinque anni, senza interruzione. Al Teatro Pacini di Pescia si tiene così la mostra dedicata a “Richard Wagner: il mito, il sogno, il fantastico”.
Arrivati a questo punto della ricostruzione dell’iter artistico di Pini sarà facile comprendere che la sua predisposizione verso l’arte figurativa austro-tedesca, che si nota fin dai suoi esordi, lo porti a fare scelte di gusto nell’area culturale tedesca anche in campo musicale, prima con Mahler, che abbiamo visto aveva soggiogato la sua ispirazione, e con Wagner dopo. Lo stesso Pini afferma che il suo coinvolgimento verso il grande compositore e direttore d’orchestra non deriva dagli aspetti più spettacolari o solenni della sua musica irrompente, la cui forza sconvolgente era nota a tutti i suoi ammiratori, ma a quegli aspetti invece più reconditi dell’espressione artistica di Wagner, alle figure cosiddette minori, deboli e sopraffatti che non ti aspetteresti in un mondo di giganti qual è senz’altro quello di Wagner. Nella potenza del dramma musicale, sono i sofferenti e i derelitti ad attrarre maggiormente la sensibilità di Pini, quegli «aspetti squisitamente umani dei personaggi che diventano degni di attenzione non nel momento di massimo fulgore o di spaventosa potenza, ma giusto quando sono costretti a mordere la polvere della sconfitta». Da qui, spiega Pini, nasce l’«umana tenerezza di Wotan nell’addio alla figlia Brunilde», «il dolore di Amfortas vittima di una ferita che non vuole rimarginarsi», «l’Olandese volante costretto a viaggiare all’infinito», «l’affettuosa premura di Gurnemanz [fig. 21], cui non a caso ho dato i connotati di mio padre, sempre disposto a proteggere i più deboli».

Fig. 21

Le linee sono come onde e flussi, quasi delle fiamme; i colori sono antinaturalistici, di pura invenzione e fantasia, scaturiscono, sontuosi e accesi, dall’immaginario dell’artista. La musica inebriante e tormentata di Wagner colpisce la sua sensibilità d’artista e si riversa sulla tela, con risultati di puro lirismo grafico. Un percorso artistico che è giunto a maturazione: il disegno non è intento a fissare realisticamente le fisionomie dei personaggi, come negli esordi, la fantasia liberatrice dispiega il segno sul foglio con movimento fluttuante; «il segno si distende, si arricciola, si fa fregio e ornamento […] è un segno melodico, flessuoso, decorativo, graficamente prezioso».(9)
L’esplosione dei colori ben si addice al romanticismo wagneriano, alla veemenza del ritmo e del sentimento della musica, che da una parte sgomenta, dall’altra rapisce. Ascoltando Wagner, Pini traspone nel disegno e nei colori la propria anima inquieta, i propri sogni e le proprie utopie (10). Come affermò Mario De Micheli, profondo conoscitore dell’opera di Pini, durante la conferenza per l’inaugurazione del “Mese Wagneriano”, 1’8 dicembre 1992: «[Pini ]ha trovato con Wagner una identità moderna: ha ritrovato il potere del sogno. In tempi di mediocrità generale come i tempi che viviamo, sognare gli eroi di un possibile domani diverso può essere salutare. E questo è appunto il sogno che, partendo da Wagner, Giuliano Pini ha osato fare».
De Micheli notò un ulteriore cambiamento stilistico per questo nuovo ciclo di opere: «La sua visione si è allargata, si è fatta più ricca, più aperta ai sentimenti della vita e della morte, più preoccupata dei problemi che interessano la nostra intima sorte dentro la brutalità della storia. Oggi non è più il Pini che delimitava il suo sguardo a una critica diretta e particolare della situazione in cui socialmente viviamo. Lo sguardo, adesso, fruga nei valori della coscienza e si pone i grandi temi che assillano la nostra presenza sulla terra. È qui dunque che è avvenuto il suo vero incontro con Wagner».
Agli esordi del 1992 il Gruppo Gualdo-Cultura decide di far rivivere un’attività che si era sopita; la terza manifestazione culturale nell’aprile-maggio 1993 è la mostra antologica “Per antichi sentieri” dedicata ai dipinti e disegni 1979-1993 di Giuliano Pini, amico e frequentatore di Gualdo e profondo conoscitore di quei sentieri sulle pendici del Monte Morello. In quell’occasione l’artista fa dono al Gruppo di una grande litografia a cinque colori che delinea il Rifugio Gualdo al vertice di un festoso intreccio di musica e di colore. Scrive il pittore, rivolgendosi all’amico e poeta Silvano Guarducci: «Per non restare vittime del bruto meccanismo s’andava, fratello in solitudine, per antichi sentieri. I più segreti, quelli dell’immaginazione, dei libri, dei quadri che a quelle letture poi si sarebbero ispirati, si diramavano dal nostro desiderio in rivoli di speranze. L’arpa della vita sognata non si era ancora spezzata e la collina, ferita dalla cava, ci accoglieva in quelle quotidiane passeggiate […] La vita sognata s’infrange contro tempi bui e l’arpa del tuo canto si è definitivamente fatta muta. Questa mia mostra dedico alla memoria di quegli anni: una mostra sulla collina, per antichi sentieri porto i percorsi della mia fantasia in quell’altrove che animava le nostre speranze».
Nel 1995 l’Associazione Culturale italo-tedesca organizza la Biennale della Fiaba, manifestazione internazionale svoltasi in Germania e Italia. Pini per l’occasione mette a punto un’antologia di disegni, pastelli e tecniche miste, tra memoria e fantasia, scolpiti dal suo segno inequivocabile, che saranno presentati nel settembre 1995 al Palazzo del Turismo di Montecatini. Giuliano Pini afferma di dedicare questa mostra per i suoi sessant’anni a un «percorso che, coniugando il segno dei maestri dal passato con l’inquietudine dei grandi espressionisti, mi ha permesso di conquistare un segno che si fa linguaggio (e non gergo) e che, come un bisturi fantastico, mi consente di familiarizzare poeticamente con il dolore, la bellezza, l’eros». La litografia a sei colori, Per la Fiaba (fig. 22), stampata da Raffaello Becattini a Firenze, ispirata e dedicata alla Biennale della Fiaba, consolida la sua collaborazione al progetto Toscana “Fiaba” dell’ACIT di Pescia.

Fig. 22

Nel novembre 1996 Renzo Melotti, dopo l’impresa che Pini aveva dedicato alla città di Ferrara con le sue cento opere, ha una nuova idea: creare un gemellaggio tra l’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze e l’Ospedale S. Anna di Ferrara e realizzare una mostra delle opere di Giuliano Pini, tutte dedicate a Firenze; i proventi ricavati dalla vendita della monografia, curata da Mario De Micheli, nata per questa occasione, sarebbero stati destinati alle due strutture ospedaliere. Tutte le opere presenti in volume – ben centodieci tra oli, disegni e tecniche miste – alle quali Pini si dedica dal 1993 al 1996 sono così presentate nella mostra “Il tempo della memoria nelle cronache fiorentine”, a cura di Melotti, presso l’Istituto degli Innocenti di Firenze. Pini si confronta con la sua città, così densa e ricca di arte e cultura, senza tirarsi indietro di fronte a questa “sfida” di raccontare Firenze, per “misurarsi col Mito”, come afferma nel catalogo Antonio Paolucci, allora Soprintendente a Firenze (11) Le figure e i personaggi di Pini vivono “nel tempo della memoria” attraverso immagini costruite dalla sua fantasia evocativa, tesa a omaggiare la città gigliata: le architetture della Cupola del Brunelleschi, della facciata di Santa Maria Novella o di Santo Spirito, il Battistero, San Miniato al Monte o il Forte Belvedere diventano i fondali e i contesti d’ambientazione «nel palcoscenico della città», come scrive Giuliano Pini in catalogo, per celebrare il ricordo di letterati, poeti, scrittori e pittori (Ungaretti, Penna, Pasolini, Luzi, Papini e Campana, Bilenchi e Rosai, De Chirico, Farulli, Loffredo) di musicisti, direttori d’orchestra e cantanti d’opera (Ciaikowski, Debussy, Bussotti, Muti, Gavazzeni, Zubin Metha, Carlo Maria Giulini, Alfredo Kraus e Leo Nucci). Come afferma Mario de Micheli: «Giuliano Pini ha veramente dipinto, sul filo della memoria, i fatti e le circostanze che hanno intessuto di sé le cronache fiorentine del Novecento». E «fra fantasmi, sogni e leggende» emerge «anche il senso concreto dell’oggettività, il senso cioè diretto, che sa descrivere una situazione reale […] la cronaca diventa mito e il mito diventa realtà»(12). Afferma l’artista: «I ricordi sono l’oro del tempo, il patrimonio a cui possiamo attingere per stimolare dialetticamente il rapporto tra passato e presente, cercando che la circolarità del tutto comprenda anche il futuro».
Nel gennaio del 1997 i maggiori collezionisti di Pini, Enzo e Marisa Landi per i loro settant’anni editano con la Stamperia Edi Grafica R2-B2 di Raffaello Becattini un volume su Giuliano Pini, intitolato I densi giorni dell’amicizia… quando un sogno comune ci univa…, con un’antologica delle opere dagli anni Ottanta in poi. Enzo Landi, fornaio di San Donnino, mecenate, committente e amatore dell’arte di Pini, si lega all’artista in una profonda amicizia. I due si conoscono nel 1966: Landi si trova a passare per lavoro da via Magliabechi, dove Pini lavora a quel tempo, e visto il quadro Pensione al mare, decide di comprarlo, essendone rimasto molto colpito. Il giovane artista si dimostra in realtà poco interessato alla vendita, ma nonostante questa iniziale ritrosia, il dipinto passa nelle mani del Landi. Nei giorni dell’alluvione, Pini si recherà a San Donnino per aiutare a liberare la casa dal fango del suo nuovo estimatore e da lì nascerà una lunga amicizia.
In questo volume Nino Campagna, presidente dell’ACIT di Pescia, delinea un bel ritratto di Giuliano Pini, «pittore di non immediata comprensione» che «continua da anni a fornire con le sue opere una sofferta testimonianza di vita».
Sempre nel 1997 Pini dona un grande, simbolico pannello (Cavriglia: il Valdarno ri¬trovato, fig. 23) al Comune di Cavriglia, il “luogo l’altrove” come l’artista chiamava enigmaticamente il posto tranquillo e isolato dove aveva scelto di vivere.
Nel giugno del 1999 Piero Farulli invita l’amico Pini alla Festa della Musica di Fiesole, in occasione del venticinquesimo della Scuola di Musica di Fiesole, in cui Paolo Nocentini e Paolo Rossi allestiscono a Villa La Torraccia le opere dell’artista, quelle opere che evocano «con estremo vigore», afferma Farulli, «il mistero della forza maieutica della musica nell’anima del pittore».

Sul finire del 1999 l’interesse per l’epopea nibelungica e la trasposizione pittorica dell’idea wagneriana da parte di Pini, definito il «pittore della musica» da Ottavio Matteini, continua a destare attenzione in due mostre gemelle, una organizzata dall’Associazione Richard Wagner di Venezia nelle Giornate Wagneriane a Cannaregio presso Palazzo Albrizzi, dal titolo “Il Wagnerismo di un pittore italiano. Giuliano Pini”, su idea di Nino Campagna e Nevia Pizzul Capello, e l’altra mostra a Lucca, presso Villa Bottini, “Accenti Tedeschi nella pittura di Giuliano Pini”. Ancora Lohengrin, Siegmund e Sieglinde o La Valchiria sono «figure cariche di simbolismi e conturbante tensione espressiva, vestite di magici colori, con i loro infiniti e preziosi dettagli».(13)
Dopo la mostra delle pitture e disegni della collezione Landi presso la Biblioteca Comunale di Torrita di Siena del 2004-2005, sarà Sesto Fiorentino a rendere omaggio all’artista nel 2009, con una mostra di disegni presso il Padiglione Berti. Tra gli ultimi più importanti eventi culturali mirati a rappresentare il percorso artistico di Pini, si ricordano le due mostre “L’edificio del sogno”, nel Museo Mediceo di Palazzo Medici Riccardi del giugno 2012, e “Il sogno mediterraneo”, tenutasi nei mesi successivi presso il Comune di Fiesole, entrambe a cura di Anita Valentini, con l’organizzazione di LiberArte. Così Fiesole ha accolto nuovamente le opere di un artista maturo, ma che in gioventù, negli anni Sessanta, aveva partecipato al Premio Fiesole di pittura con un dipinto di grande importanza, oggi presente presso la Pinacoteca comunale, in veste di donazione.
Nel 2013 il Centro Espositivo Antonio Berti di Sesto Fiorentino accoglie le opere di Pini nella mostra “Firenze, ritratti d’arte e d’amore” e oggi, qui, nello stesso luogo espositivo si torna a omaggiare l’intero operato di Giuliano Pini, dopo la sua morte.
Giunti alla fine del suo excursus pittorico, possiamo notare che tutta la critica, fin dagli esordi di Pini, ha sempre riconosciuto il suo “isolamento” e la concezione di una pittura lontana dalle mode del momento, «in tempi di presenzialismo affannoso», come li definiva egli stesso; una ricerca del tutto personale, portata avanti in solitudine, con profonda coerenza. Nel 1977 Mario De Micheli, per primo, affermava che Giuliano Pini si muove «ormai da oltre quindici anni nel contesto dell’arte italiana come un protagonista solitario»(14). L’altro aspetto che molti critici hanno sottolineato è la sua libertà poetica, da cui questa mostra retrospettiva, prende il titolo. Come afferma Micacchi: «Allora, Giuliano Pini pittore “non contemporaneo” di un grande sogno di liberazione? Forse, per questo suo sguardo che affonda nel tempo lungo e per questo suo sogno di liberazione sociale e poetica, un vero, raro contemporaneo, ma che ha preso le distanze dal consumo dell’arte».

Fig. 23

1 Mario Luzi, in Giuliano Pini. Il tempo della me-
moria nelle cronache fiorentine, catalogo della mostra a cura di G. Piero Jacopini e Renzo Me-lotti, Istituto degli Innocenti, Firenze, Studio d’Arte Melotti, Ferrara, 1997, p. 43.
2 M. De Micheli, Le cronache fiorentine, in Giuliano Pini Il tempo della memoria, cit., p. 29.
3 M. De Micheli, Giuliano Pini, Galleria d’arte Schreiber, Brescia, 17 marzo-5 aprile 1973; Galleria della Rocchetta, Panna, 28 aprile-i 2 maggio 1973.
4 Ibidem

5 Testo registrato tra G. Pini e D. Micacchi, in Giuliano Pini. L’Edificio del sogno. L’opera incantatrice di Wagner, catalogo della mostra, Sala d’arte Benvenuto Tisi, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 16 maggio-27 giugno 1982, p. 12.
6 G. Pini, in L’Edificio del sogno. L’opera incantatrice di Wagner, estratto dal catalogo della mostra, cit.
7 D. Micacchi, in Le radici del grido. Dipinti e disegni 1985-1986, catalogo della mostra, Galleria Ca’ d’Oro, Roma, aprile 1986.
8 M. De Micheli, Ferrara: i personaggi, i miti, i fantasmi, in I grandi pittori a Ferrara, VIII libro, Studio d’Arte Melotti, Ferrara, 1991.

9 Conferenza di Mario De Micheli per la mostra “Richard Wagner: il mito, il sogno, il fantastico”, Foyer del Teatro Pacini, Pescia, 8 dicembre 1992.
10 Ibidem
11 A. Paolucci, in Giuliano Pini. 11 tempo della me-moria, cit., p. 27.
12 M. De Micheli, Le cronache fiorentine, in Giuliano Pini. Il tempo della memoria, cit., p. 29.
13 O. Matteini, in Giuliano Pini. Il tempo della me-moria, cit., p. 46.
14 M. De Micheli, in Giuliano Pini, Galleria Santa-croce, Firenze, 1977.

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