Fortunato Bellonzi

Galleria Santacroce, catalogo mostra, Firenze, aprile 1974.

Per Giuliano Pini è stato fatto più volte il nome di Otto Dix; e con ragione anche maggiore è stata citata, accanto al movimento tedesco della « Nuova Oggettività », la « tradizione gotica e quattrocentesca toscana, complicata, nel gusto di una linea ondulata e flessibile, da un’intima inclinazione verso talune soluzioni liberty »: così Mario De Micheli, che degli estimatori e dei presentatori del Pini è tra i primissimi in ordine di tempo.

Si tratta di fonti manifestamente scoperte, col loro appannaggio di simboli, rivelatori di una attitudine inquieta, perfino drammatica, alla presa di conoscenza della realtà.

Ma non sarà inopportuno chiarire che il « goticismo »del Pini, oltre che rimandarci ai maestri della « Neue Sachlichkeit » (ritornati recentemente ad imporsi alla nostra attenzione) e al gusto nordico dei nostri Quattrocentisti, toscani e no, e aggiungeremo dei Cinquecentisti. ove si pensi all’ultimo Michelangelo « gotico » della Pietà Rondanini e al Pontormo con le sue memorie palesi delle stampe del Durer e i suoi umori di ricercatore, pensoso, malinconico, stravagante, quando ci si dimostra tutto preso da interesse per i valori lineari assoluti dalla verità plastica e funzionale dei corpi (la Deposizione in Santa Felicita si trova d’altronde sui passi del Pini) entra di diritto, e con attualità palese, in quel lungo e complesso amore della linea che perfino a Ingres — et pour cause! conferì l’appellativo di « gothique », ambiguamente attribuitogli da un’ala della critica a lui contemporanea. Un amore che dai bizantini e dai gotici discende, rinnovandosi, ai Manieristi, dai Barocchi agli artisti del Rococò, dai Romantici ai Floreali e da questi a noi, come uno dei due modi egualmente necessari, com­plementari, di porsi in relazione l’uomo e le cose: l’un modo che ten­de, le cose, a chiuderle in una trama grafica, in un contorno che per noi le isoli nello spazio, ce le renda accertabili, definite; l’altro, invece, che aspira a dissolverle in un continuum, di luce e di spazio, nell’unità del tutto: unità metamorfica, dinamica, musicale. Né quei due modi stanno soltanto in antitesi, ma anche in simbiosi, massime nell’età mo­derna: nei Futuristi, meglio diremo in Boccioni, e nei Nabis, e nel nostro Gino Rossi della stagione bretone, e nel primo Arturo Martini, tanto per addurre esempi dei più immediati e convincenti.

Vogliamo dire che il linearismo di Pini è partecipe di quel culto della linea, in quanto mezzo di espressione energetica, che a prescindere dall’esperienza barocca e rococò (William Hogarth, nella Analisi della Bellezza, 1753, già parlava di una « ghiotta specie di caccia » cui l’occhio viene indotto seguendo l’intrigo delle linee, particolarmente delle spiraliche e delle serpentine) riguarda i grandi romantici visionari del Nord Europa — un Blake, un Fussli, un Flaxman — e i Preraffaelliti (onde si può scoprire, nel Pini, un’attenzione ai nostri De Carolis e Sartorio che del Preraffaellitismo risentirono un influsso tardivo ma tutt’altro che inerte) e i teorici e gli artisti della linea: da Owen Jones a Christopher Dresser, che chiamava la sinuosa « the line of the life », a Walter Crane e a Van De Velde, la cui sentenziosa proposizione del 1902, « la linea è forza », sigillava con autorità le ricerche antecedenti o coeve, precorrendo il concetto di « linee-forza » del dinamismo plastico boccioniano.

Preferiamo dunque parlare, per il Pini, non di un neogoticismo individuabile in ascendenze umanistiche e tedesche con innesti di scelte formali dal Liberty, ma piuttosto di una presenza spontanea, viva, attesa, nella lunga avventura della linea, che non è meno necessaria e importante dell’avventura della luce, pur se quest’ultima ha riempito da sola, fino a ieri può dirsi, quasi l’intera storiografia artistica dell’evo contemporaneo, interessatasi, a torto, all’unica direttrice dell’Impressionismo. Ed una presenza, come è giusto che sia, puntuale, situata nella congiuntura odierna di quella avventura multisecolare della linea, mentre assistiamo alla crescita numerica degli aspiranti a un nuovo possesso della realtà, e perciò artisti e studiosi riscoprono gli oggettivisti di ieri, fino negli esempi più gelidi (anche del « ri­chiamo all’ordine » nei termini della ideologia novecentista di stretta osservanza!), ché il bisogno attuale di realismo non è neppur esso sincero sempre e dovunque, non è ogni volta sollecitato da una esi­genza autentica dello spirito, eppure dà luogo anche a superficiali ade­sioni, e ad equivoci, qual è quello dell’iperrealismo nordamericano. Più che l’individuazione, dunque, delle fonti della pittura di Giuliano Pini conta il valore morale, la schiettezza del suo schieramento con i nostri linearisti espressionisti, per così chiamarli, tra cui un Cre­monini, un Guerreschi, un Vespignani, e gli scultori Bodini e Vangi, coi quali tutti il Pini condivide la passione e la capacità del disegno (che è « l’intera probità dell’arte », come diceva Ingres) e talvolta anche i tagli compositivi, certe enfasi marginali, certe invenzioni di orizzonti o di prospettive non matematiche, che propongono il rac­conto in episodi folgoranti, quasi lacerti di una realtà rivelantesi d’improvviso, drammaticamente; oltre a non rare asprezze contenutistiche, volte ad esiti grotteschi che insorgono dalla denuncia del costume, dalla insoddisfazione delle strutture sociali, dai moti, infine, di un animo che ha mille ragioni per trovarsi oggi più spesso disposto alla ribellione, allo sdegno, all’amarezza, magari al rifugio impossibile nel sogno, che non alla quiete contemplativa.

Alle origini delle scelte e del lavoro del Pini, e dei pittori e scultori menzionati sopra, ai quali altri pochi potremmo aggiungere, tutti differenti tra loro, ma tutti accomunati da un medesimo impegno conoscitivo, sta l’esempio immediato di Cagli e di Guttuso, ciò che non significa affatto avere accolto, o di Cagli o di Guttuso, temi e stilèmi. Il sentimento della storia e della realtà (e i due termini costituiscono un’endiadi, a ben vedere), che Cagli e Guttuso diversamente possie­dono, come artisti che difatti non hanno mai rotto con la tradizione, anzi vi hanno spaziato, ben oltre i confini nazionali, ricercando ogni area di cultura, remota o vicina, consapevoli che l’attualità avulsa dalla conoscenza del passato è una battuta astratta del tempo, gene­ratrice di miti ingannevoli e pericolosi, e chiusa, ovviamente, anche al futuro, ha agito indubbiamente sugli artisti più sensibili e avve­duti della generazione successiva, e sui giovani come il Pini, aiutan­doli ad incontrare se stessi e a riconoscersi nell’impegno di conte­stare quella progressiva dissoluzione dei contenuti dell’esperienza vi­tale che appena ieri sfociava nella stagione fortunosa dell’informale (con la sua pretesa della « forma informe ») per tramontare subito, malgrado taluni esordi brillanti, appunto perché non sostenuta da una ricchezza umana, da una corrispondenza tra l’espressione signifi­cante e le esigenze e le responsabilità della vita (l’artista non è sol­tanto nella storia, ma fa la storia, come il Ragghianti giustamente non si stanca di ripeterci).

Sarà superfluo — del resto le opere del Pini sono lì a dimostrarlo insistere che l’« insegnamento » di un Cagli ,o di un Guttuso va inteso unicamente come l’esempio a monte di una giovane situazione di cultura, non accademica e non arbitraria, la quale può difatti concedersi tutti gli estri della visionarietà e tutte le eleganze stilistiche senza restringersi nel vagheggiamento narcisistico di una sigla.

In quel crepitìo di cartocci di pieghe, in quel viluppo flessibile e nodoso di linee, in quelle irreali fosforescenze di tinte piatte e laccate, in quel far notomìa dei corpi, dei panni, delle foglie, dei fiori, per ricomporre da ultimo i residui della vivisezione della realtà in organismi nuovi, a un tempo fantastici e persuasivi, che sono fuori dell’esperienza quotidiana e tuttavia in essa rientrano quando è l’artista a portarci per mano, subito s’impone un’idea della pittura « come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte »: sono parole di Guttuso a proposito del Caravaggio e del significato che la scoperta caravaggesca ebbe per il realismo moderno.

La battaglia conoscitiva che oggi un settore giovane dell’arte persegue, in condizioni forse meno disperate di quelle di ieri, ma irte di trabocchetti e di ambiguità, mancando non solo la concretezza di una società in cui vivere e lavorare da uomini, ma altresì la speranza e la volontà di costruire una vita sociale degna, ha in Giuliano Pini un sostenitore valido. Lo dimostrano molte sue opere, tra cui Guardando lóntano e Sul battello; e quelle sul tema dell’Estate, le quali lasciano intravedere anche un pittore di forte empito decorativo nel senso no­bile dell’attributo. Sarebbe augurabile, ove esistessero condizioni diverse da quelle che solitamente determinano l’applicazione della cosiddetta legge del due per cento, che al Pini venisse offerta l’occasione di spiegare l’intera ricchezza delle proprie doti nel « far grande », come si diceva una volta, ossia nelle pareti di un edificio pubblico.

(1974, presentazione per la personale alla Galleria « Santacroce », Firenze).

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