Dario Micacchi

Galleria Ca’ d’Oro, Roma “L’edificio del sogno“, marzo 1983

È giusto un anno – il 18 febbraio 1982 –  che consegnai a Giuliano Pini il testo per la splendida monografia « L’edificio del sogno » che fu stampata dalle Edizioni della Bezuga di Firenze per la passione e la cura di Giuliano Allegri, una monografia che accompagna il ciclo omonimo di dipinti in giro per l’Italia. Sigillava per me quel testo un sodalizio durato più di un anno lungo il quale avevo visto nascere, con crescente stupefa­zione, tanti dipinti e grandi disegni del ciclo. Credevo chiusa una così straordinaria avventura pittorico-musicale dell’immaginazione e la mono­grafia la restituiva tutta. Ma non è stato così. Dal febbraio del 1982 ad oggi Giuliano Pini ha continuato a dipingere e a disegnare quello che non è più un edificio del sogno ma un continente del sogno: ha varcato una soglia e lo sguardo ora deve fare da scandaglio per cose mai viste. Wagner che stava al principio e che aveva dato a Giuliano Pini una chiave per entrare, s’è fatto lontano, si può dire che abbia lasciato solo, in un territorio fitto di ombre sterminato, il nostro pittore.

Il catalogo di questa mostra alla « Ca’ d’oro » riproduce il testo della monografia, ma la pittura e le immagini sue sono andate così avanti che ritengo utile aggiungere qualche riflessione sul farsi del pittore e sull’edificio che è diventato un continente del sogno.

I dipinti e i disegni del ciclo wagneriano si potevano raggruppare secondo due dominanti di segno, forma e colore: una, statica, calma, se­rale-notturna, melanconica, umida, verde azzurra, di sprofondamento at­torno alla ferita di Amfortas che mai chiude; l’altra, invece, dinamica, furiosa, solare e infuocata, rossa e gialla, metamorfica, di apocalisse e di innalzamento e liberazione. L’acqua e il fuoco, le vesti, i grandi gesti da­vano i supporti al flusso di una grande energia pittorica che saliva dal profondo per dispiegarsi in figure costruite da un segno « musicale », delirante, metamorfico. Nei disegni e nei dipinti che si sono aggiunti al primitivo ciclo è prevalsa la dominante dinamica e metamorfica al punto che il flusso si mangia la figura e una vibrazione ininterrotta fa pulsare la superficie dipinta. Di colpo, si può dire, s’è rimpicciolito il formato dell’immagine e, nella piccola e media dimensione, il colore ha acquistato una risonanza abissale e una qualità e un’incandescenza dall’interno che appartengono al sogno di un mondo altro, al disegno e al recupero d’una dimensione contemporanea della bellezza. Il segno, che sia fuoco o acqua o vesti o tratti somatici, sovrasta la figura, delinea un flusso che porta lontano, un eros che si lascia andare musicalmente nello spazio. Il verde, l’azzurro, il rosso e il giallo sono della qualità sensitiva, concettuale e musicale che poteva pensare Wassili Kandinskij. Un lineamento del volto, una ciocca di capelli, si possono dire disegnati come note musicali. Sono dipinti tutti davvero da vedere perché le parole scivolano via come gocce d’acqua dalle immagini ultime di Giuliano Pini. È lo stesso imbarazzo fino al silenzio che, alla fine, trova la parola davanti al ritmo e ai vortici delle figure dell’altare di Pergamo, di certi dipinti « musicali » di Simone Martini e di Sandro Botticelli o di sculture del Bernini come l’estasi di Santa Teresa o l’altra estasi erotica della beata Ludovica Albertoni, o ancora delle stampe, forse inarrivate per il dominio ritmico del flusso cosmico ed erotico, dei giapponesi Harunobu, Masanobu, Hokusai.

Davanti alla « Testa » di giovane che chiede silenzio, a « Improv­viso » col ragazzo angelico che suona la luce, a « Nel sonno » verde az­zurro, alla melanconia che ha un profumo fragrante di « Gurnemanz e il guerriero » e alla « Walkiria » che prende fuoco, per fare degli esempi da paragonare con quelle tante pitture di imitazione delle cose che oggi si fanno con l’occhio ma senza discernimento, vien da pensare alla stupida e falsa contemporaneità di tanto contemporaneo – ma di chi? – vistosamente esibito. Giuliano Pini scivola in un tempo lungo e pone un sorprendente punto di vista nuovo in una risonanza lontana dell’esistenza nostra e di un tempo storico non finito. È come se il suo bellissimo, forse sognato giovane musico suonasse su una magica corda di violino della quale un capo è agganciato saldamente al nostro presente e al nostro io profondo e l’altro capo a un punto che è tutto da scandagliare e che serra anche la speranza o ancora una volta la leopardiana illusione di un mondo altro. Allora, Giuliano Pini pittore « non contemporaneo » di un grande sogno di liberazione? Forse, per questo suo sguardo che affonda nel tempo lungo e per questo suo sogno di liberazione sociale e poetica, un vero, raro contemporaneo, ma che ha preso le distanze dal consumo dell’arte.

DARIO MICACCHI

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