Sylvano Bussotti

Due Frammenti per PiniDi un giovane l’amplesso con il tempo

ià nel dipinto del ’73, “Guardando lontano”, l’ampio dorso virile seduto in riva all’orizzonte sale verso un profilo giovine, dolce di forza in espressione attenta, forse chiuso ermeticamente come di una scultura, senza omettere i tratti essenziali d’un segreto autoritratto dove Narciso è inteso quasi erculeo e violento, inconsapevole angelo vendicatore dal capo coperto. Altri due titoli di medesima annata: “Ritratto immaginario” (appunto) “Tenera è la notte” si direbbero appuntati al medesimo aedo interiore; curva del naso, delle rigonfie labbra, conchiglia delle palpebre. La forza, ancora; la impenetrata malinconia che ci fa temer severo. E l’anno di poi “L’Annunciazione”. Angelo che appare a un uomo ignudo già maturo ma il dorso è il medesimo, possente; che trasalirà sollevato appena dalla poltrona rossa; nel volto celeste — voglio dire materialmente di quel colore — i tratti di necessità fatti frontali aprono ancora l’occhio e le labbra con l’identica soluzione della insostenibile bellezza giovanile e virile. È nel ’77 che questa creatura si scinde; la “Separazione” rappresenta bifronte il genio maschile gemello alla femminile chimera portata sulle spalle, verso promesse di frutta copiose, ma già consapevolmente inattingibili, se un fulmine continua fra le nubi rabescando il ciuffo ricciuto della fronte la lumeggiatura di tutto il profilo che, contemplato appena di scorcio, appare più chiuso che mai. Di questo medesimo periodo un ritratto immaginario ulteriore dichiara il suo modello (un violoncellista, Tortelier) e la dedizione alla musica mediante un ripetuto incanto dello scheletro. Della regola, rinascimentale e toscana, secondo cui le figure andavano disegnate del tutto spoglie, anche sotto grandiosi drappeggi, non basta, bisognava conoscerne addirittura la minuziosa e forte ossatura, per dare movimento e verità a corpi del tutto, e spesso magnificamente, pesantemente rivestiti, abbiamo qui la più fedele, ostinata illustrazione. Mani e ginocchia e tutte quelle parti del corpo vicine a schiantare una pelle dai secoli riarsa, pronte a denudare la costruzione sinuosa, elegantissima delle ossa, sfogano del pittore la secca brama d’ossa umane (ciò che il Tempo di noi più lungamente nei secoli accarezza prima della dissoluzione in preziosa polvere d’amore). Se l’occhio superficiale crede che queste dita smisuratamente tese sul violoncello esprimano quel poco diabolico motivo dell’artiglio infernale, basterà soffermarsi sulle analoghe dita nei numerosi disegni dell’anno passato (1979) dove la figura del giovine sempre di più alza le mani nel gesto e le allunga in offerte, strette, separazioni, ammonimenti. Riconosciamo tutti quei temi dell’Allegoria, che di Giuliano Pini è la vera vena perenne. Non se ne commenta la paziente, ostinata parabola formale dove arditamente va coniugando la propria fonte nativa fiorentina all’apparente fascino dell’arabesco che preraffaelliti e nazareni, dall’Inghilterra in capo al secolo resi prigioni a Roma, s’illudevano di fede cristiana in colori smaglianti d’ideale. La cupola di “Souvenir de Florence” non è dissimile a quelle, veneziane, di tanti sfondi del passato e del presente. Significa di più rammentare come il titolo di quel disegno è identico a quello dí una fra le più pure composizioni musicali da camera di Tchaikovskij, la cui morte, in altri disegni dello stesso periodo, viene identificata, assimilata a specchio nell’immagine intitolata “Concerto”. Chi scrive — avendo scelto per questa lunga pagina di diario (mi è successo la notte passata sfogliando alcuni cataloghi delle più recenti mostre di Giuliano) deliberatamente uno stile desueto del tutto, manierista e distante — ha in sé l’esperienza implacabilmente rinnovata lungo tantissimi giorni, mesi, anni; l’ascoltarsi al concerto è imparare pian piano una morte, nel senso del verso che, dinanzi al padre morente, appuntò Michelangelo: “nel tuo morire il mio morire imparo”. Fra i modi del dolore è, questo male del tutto consonante alla sofferenza amorosa. Ebbene, dico che temi e moti allegorici, entro poco meno di vent’anni della pittura in questo artista hanno, nel bisogno di musica piena, la radice. Parlo di Pini perché vorrei teorizzare sulla pienezza del disegno sonoro, aiutato dai suoi segni e dipinti. È piena, la musica di Tchaikovskij ad esempio — e potrebb’essere l’esempio, con Mahler (con me?), con Puccini, più sconcertante (la parola scompone l’idea concerto, non a caso) (e l’immodestia sfrontata, se si giustifica in quel po’ di delirio che va concesso a un diario. non piacerà all’imbarazzo di chi legge) — Pienezza di un rapporto impossibile perché solo rapporto umano da raggiungere in sogno: di un giovine l’amplesso con il Tempo. Nel recentissimo disegno intitolato “Fiorite ghirlande”, Giuliano Pini, nascosto appena dietro il dono di delicati grappoli. ghirlande di bacche, foglioline, acini, pampini, denuda e svela immagini di conoscenza quasi serenità. secolare. Si direbbe che per la prima volta il profilo del vecchio personaggio. che nel basso del foglio guarda fuori al limite estremo con la pupilla colma di pensiero, sia profilo fortissimo, ancora vincitore dello scheletro: così come la mano del giovane sovrastante. aperta a sostenere, e poi cospargere. quel pugno rigoglioso di frutti verso il capo appena reclinante del Tempo ( così lo si individua, secondo tradizioni obbligatoriamente secolari) dell’ossatura interna sembra svelare nient’altro che il motivo allungato e ricurvo, vorrei dire il midollo, melodioso sino alla forte carezza dell’unghia. All’alta estremità di questa pagina il giovine, che guarda in basso anche lui, ma il suo sguardo ha per meta il cranio soltanto un poco ignudo dell’anziano, ancora ricco di riccioli, curva la carne piena del suo labbro nell’interno sorriso che gli angoli acuti dello sguardo echeggiano in armonia. Quel giovine gode e contempla del Tempo una metafora viva dove sa che sta scritto il proprio destino; incomincerà ad impararlo; sia pur dimentico, e per sempre, all’istante successivo. Conosce anche l’orizzonte, per lontano che sia; da cui proviene: quella linea del mare in cui sta il segno di sguardo, coscienza, pensiero e realtà.. Sull’ala delle spalle, ma dove il braccio che si vede nudo è sottile, un po’ gracile, infantile ancora, palpita un seno il cui capezzolo è gentilissimo, non ancora turbato. L’amplesso è tutto nel sapersi fonte vitale che alla fonte di vita si abbevera. Se poi l’allegoria sembrerà riportata ai termini più infantili, elementari, quasi scolastici, ecco che il motivo definitivo dell’umano sarebbe compiuto. Vivere è allora imparare. Come s’impara il disegno e l’amore, il dolore e la musica. Con quell’afflato sentimentale che questa pagina non ha saputo frenare un solo istante. Vizio l’endecasillabo. Virtù l’attenzione che un’opera tanto sapiente, di chi è ancor giovine, al tempo dona. Dicevo nei giorni passati del fare attenzione al piacere, così come al dolore, e non escludo il male fisico, la malattia organica. Ora che Brutto è proprio brutto del tutto e tutto è stato messo spietatamente a nudo, l’anima e la carne; adesso che -parole da scrivere qui di nuove, non ci sono — ed è passato; alcune gelide ore di lavoro; e stava male; poi domani si affronta l’assurdo — ripenso a Dino e Giulio e Luca e lì costanti (così ebeti) di tanta carne unicamente amati; e Pasquale, Enzino, Michel: che segno è il corpo a incidere? Soltanto questo dovrei decifrare, dare in pasto al suono. Amore brutto che, necessita in virtù del suo nulla è mutarmi del tutto.

Genazzano 20 febbraio 1980
In “I miei teatri” Biblioteca Narciso di Novecento, 1982

E immagini del Parsifal

Un poco meno di due anni passati dall’endecasillabo sgusciato fuori, sotto la pelle tesa di una prosa avvezza alle scansioni ritmate, nel commentare i dipinti di Giuliano Pini. Era in quel tempo la via di un processo evolutivo disciolto in una mostra fiorentina, ma di cui andavo in cerca risalendo a tante pitture anteriori, a disegni e dentro i temi musicali di una razza, vorrei dire, immaginata dal pittore a modello quasi divino; nel girovagare degli accigliati eroi, in se stessi e mediante le proprie membra, la bellezza del semidio costrinse anche la penna (eppure non scrivevo d’occasione) a incurvarsi seguendo lo snodo muscolare, sinfonico e cantabile; per risollevarsi poi e svettare nel ripetere versi, alla prosa interni, velati appena da un pudore accademico, nel pronto squillo e nella improvvisa fanfara. Un viaggio nell’altro, l’orma speculare conduce quasi l’autovettura d’inverno alla notturna visita di studio; se nelle membra mie proprie dovessi ricercare la riprova di un vibrare ad unisono, bisognerebbe scostare il pesante mantello nero e guerresco; e dopo l’automobile, il treno, l’aereo, rarissime passeggiate, autobus frequenti; slittamenti geografici nel vizioso tragitto della mia poca Europa — Firenze, Roma, Genazzano; poi Padova e Fiesole, Viareggio e Pisa; Milano, Parigi, Milano ancora e così via — a ripetere, dalla microstruttura di quella visita folgorante cui seguiva il primo confronto intimo col ragazzo venuto da fuori, nella macrostruttura di visite più vaste, rese ai centri vitali della fede, conclusi quest’oggi nello sguardo d’accolito del medesimo ragazzo già iniziato (angosciato appena dalla tema sull’orlo d’esser lasciato solo), quando, accanto al danzatore, comprenderò la lezione. Il mezzo di trasporto principe è la metropolitana. Vi si nasconde, così, come dentro le vampe ardenti del mio scuro pensiero, quel medesimo eroe wagneriano che il pittore raffigura; l’inconsapevole devozione ha guizzi abbaglianti di sguardi, sfiorati dello stupirsi e capire, un sospetto, ma subito distolti, precipitati nella pura incoscienza. Debbo dirlo, scriverlo qui, e lo vorrei intonare: — sei tu a portare Parsifal con te, che stringi nelle vesti più svariate, dalle fogge triviali o sontuose della moda, l’immane ritorno all’evo primordiale — che il primordio sia rinascimento, o sia preistoria, è la somiglianza, oggi l’identità, a dare il senso di un perenne miracolo — e non vorrei farmene cruccio se l’incallito verso, carne umorosa sotto le vesti provocanti della prosa corrente, grazie e soprattutto alle rare parole retoriche impossibili da scordare, delira consumando una fiamma bianca, un aureo rogo dove arde, si brucia e fonde la chioma bionda, ora liscia, ora inanellata di riccioli a matassa. Evo, miracolo e primordio i termini da censurare. Eppure. Accompagnandosi a quel ragazzo l’altro, che sembra un ragazzino e che a sua volta mi accompagna unito ad un terzo ragazzo, bambino, bambino; teoria di gioventù in colonna predetta dalla vecchia poesia di Dino Campana, rintocca il rito delle ultime parole. Giuliano Pini lo dipinge, e l’ho detto, nelle braccia del giovine detta in punto di morte le ultime sue parole un centenario ancor vivo; sono detti di musica e respiro; avvolti nelle vesti iperboliche, nell’abbagliante gioiello delle carni giovani, si sospendono all’orlo del sonno perenne fatto in musica, in sul precipite crinale del vivere ancora un amplesso questi protagonisti d’abbraccio. Passa fra solco d’inguine e solco di coccige un brivido, si prolunga lento il piacere vibrato; la totalità dell’insolito bagna tutta l’immagine di seme e di vernice. Vento e pioggia, poca neve o sole s’inchinano alla Luna…

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