Dario Micacchi

“Conversazione tra Pini e Micacchi”

Micacchi — Mentre venivamo qui, a casa tua, parlavamo del tuo lavoro e lo collegavamo a certi fenomeni bio-psichici della specie umana: diceva­mo che ci sono dei comportamenti che praticamente riguardano l’indivi­duo, e senza che egli ne abbia coscienza, lo obbligano a fare certi gesti, certe cose. Probabilmente, anzi sicuramente, anche in una delle manifesta­zioni che píù sembra consapevole, come quella del fare artistico, in realtà vengono fuori, attraverso il segno, il colore, i volumi, cioè attraverso il modo di dare forma e di occupare lo spazio, molte cose assai profonde e assai inconsapevoli.

Questa è certo una questione molto controversa perché c’è chi fa dell’arte il massimo della consapevolezza e chi, invece, attribuisce all’arte la capacità di portare all’evidenza fenomeni profondi, molto complessi e non tutti di tipo razionale.

La razionalità è una parte dell’essere, ma non è tutto. Ora, per venire al concreto della tua pittura: mi sembra che sia — la parola non è appropriata — esplosa grosso modo quando tu hai fatto quel primo quadro — dico primo perché mi sembra avere aperto la serie —che porta il titolo “Il punto da raggiungere”. È cominciato di lì questo processo che ha portato praticamente a una sorta di straordinario “decol­lo” dell’immaginazione: nel “Punto da raggiungere” c’era l’ingresso, lo scivolo in una laguna con architetture veneziane-fiorentine, in una zona al­luvionale, di un uomo morente che, con tutte le sue cose, con tutte le sue delizie della vita, veniva trascinato da un demone-becchino in un lenzuolo-bara verso la zona abissale.

Questo elemento dell’acqua era già un elemento nuovo nel tuo lavoro. Mentre certi temi del movimento lineare già esistevano da prima e tu ne eri stato, negli ultimi anni, molto tormentato.

Credo che tu stesso abbia faticato ad arrivare a questa coscienza, o li­berazione, del profondo, che si è verificata con “Il punto da raggiungere” ed è poi maturata con tutta questa serie di quadri, che hanno dei legami palesi con Wagner. Ma, superato questo elemento, che si potrebbe chia­mare del contenuto letterale o del soggetto, in realtà si è messa in moto una “macchina” del colore, del segno e della forma: delle forze che, come quelle che costituiscono un fiume che scorre, più o meno tempestoso, più o meno vorticoso, con una fantastica occupazione ed una piena tenuta dello spazio, fanno la tipicità della figurazione, al di là di quello che è stato lo stimolo, certo profondo, della musica di Wagner. Ora, l’impressione è che siano venute a galla delle zone molto profonde, tue personali, con grandi ombre e luci folgoranti, ma anche cose tutte attuali, del tempo presente e della storia umana, della specie umana storica, certo, condizionata da questo tipo di società e di vita. E che tu in pittura non illustri il tempo, ma ristrutturi il tempo.

Questa forma vorticosa, fluttuante, che si dibatte tra gli elementi dell’acqua e del fuoco così curiosamente ritor­nanti: il fuoco come elemento che prende le vesti, le forme anatomiche; l’acqua, come zona di affondamento, che un po’ caratterizza tutta l’imma­gine la quale ha la sua luce di fiamma nel colore, assolutamente antinatu­ralistico, ma completamente psichico, inventato, fantasticato, immaginato e che si appoggia a una quantità di vesti, di cavalli, di forme spigolose, tonde, a tutto un “armamentario”, uno “scenario” che consente alla linea di essere fiamma, dí essere onda, di essere flusso, di ricostruire così il lin­guaggio e di farsi parola-immagine. Ma sono sempre i caratteri interni che modellano i personaggi e i vestimenti e l’unità fiammeggiante e fluttuante dell’immagine è di una bellezza musicale inebriante e straziante, con un gioco continuo tra melodico e armonico, quale da tempo nella pittura non si vedeva; è di una bellezza non oppressa da citazioni della memoria cultu­rale.

Quando hai finito di dipingere “Il punto da raggiungere”?

Pini — “Il punto da raggiungere è del ’79.

Micacchi — Ecco, tu pensi che in questo che ho detto ci sia qualcosa di vero?Pini — Sì. Anzi direi che è sorprendente l’esposizione che hai fatto, essa è già una risposta alla domanda; mi sorprende questo elemento interpreta­tivo così profondo.

Micacchi — Ci ho pensato a lungo, visti i tuoi dipinti, perché hanno illuminato zone buie e sepolte della mia vita.

Pini –Scusa se ti interrompo. Ti dirò che, spesso lavorando, mi sono sentito fuori dalle cose, fuori dal tempo, anche fuori dalla storia, dallarealtà. E mi sono chiesto il perché di questi vestimenti, che poi non sono, come qualcuno può pensare, riferimenti pedissequi… Sono un pretesto percreare un fuori tempo in cui la fantasia, al presente, si possa scatenare.

Micacchi — Certo, tutto il grande movimento proliferante linee e colori che è fatto di vesti, ma comprende anche la muscolatura e le ossa. Per esempio quel farsi aguzzo, tagliente, scheletrico delle mani, quel proten­dersi tra desiderio e contrazione di morte, che possiede tutto il corpo e poi sembra far fiorire o seccare le mani.

Io praticamente ho ricordato, di fronte a quelle mani, certe espressioni che, per esempio, si ritrovano nei cortei, nei grandi movimenti di massa, quando uno fa dei grandi gesti; e, poi, nello stesso tempo, ho pensato alle catacombe dei Cappuccini a Roma ed alle catacombe di Palermo, con quelle figure scheletrite in gesti e con quell’uso abbastanza terrificante e scenografico dell’immobilità “eterna” nei mestieri e nelle professioni, che era del sei-settecento, quando usavano la morte come messa in scena al presente degli scheletri, quindi come elemento spettacolare che sta tra de­siderio e annichilimento.

Ecco, ora mi interesserebbe sapere che cosa è scattato di nuovo quando tu hai cominciato a lavorare, a cercare, a immaginare dopo “Il punto da raggiungere”. Perché di lì si è mosso qualche cosa, o mi sbaglio?

Pini- No, non sbagli, però in qualche quadro precedente questo elemen­to già c’era. Per esempio citerei “L’alluvione” e “Il battelliere”; c’era già questo andare. Vedi io la vita la sento come flusso per cui anche nel rap­porto con la musica, particolarmente con Wagner, c’è questo fluire, questo respirare e ansimare musicale. “Il battelliere” probabilmente è stato un quadro chiave di cui anche questi ultimi dipinti sono, in qualche modo, figli.

Credo che l’uomo abbia un punto, che non è necessariamente la morte — questo aspetto può essere anche estremamente letterario — un luogo ci deve essere in cui possa esprimersi fino in fondo: un’isola felice.

Questa sensazione poi — come si parlava avanti — la posso sentire anche di fronte a un paesaggio (mi è successo, per esempio, l’estate scorsa a Baratti, ero a pranzo con Roberta, rosseggiava il tramonto ed ho capito che il nostro rapporto non era quello, banale, di me e Roberta lì ad un tavolo, ma era là: c’era questo straordinario tramonto, c’era un posto e sentivo che la nostra felicità poteva essere laggiù).

C’è sempre qualcosa che mi spinge: è la voglia di muovere tutto: questa frenesia del segno e questa irrequietezza, direi anche angoscia, che mi trovo addosso.

Micacchi — Certo incredibilmente tra felicità e angoscia. Ma probabilmente penso che sia un po’ nel cuore del destino umano, che non c’è felicitàsenza angoscia appunto, perché la strada per arrivare alla felicità passa attraversouna specie di foresta, già intuita anticamente dall’uomo che facevapoesia, insomma una foresta che è piena di rovi, di spine e che ti taglia… Mi sembrache la civiltà occidentale abbia ripreso questo in chiave cristiana già con Dante, con la storia, con i miti e le leggende cavalleresche me­dievali (ecco Wagner).

Insomma, probabilmente quello è un punto di razionalizzazione di una cosa profonda. In tutte le storie umane c’è un qualcosa che dice dell’av­ventura, di un transito, di un passaggio e delle conseguenti prove che l’uomo deve affrontare. Diciamo che poi, in tutte le civiltà umane, complici gli dei o gli esseri mitologici, c’è sempre questo processo (ascesa o caduta) per arrivare a qualcosa. Una sorta di sublimazione attraverso il dolore, attraverso la fatica.

Però una cosa nella tua pittura è avvenuta in maniera abbastanza cla­morosa. Una volta visti i quadri, si è certi di un cambiamento di rotta: insomma tu andavi su un aeroplano che, diciamo, atterrava più o meno in degli aeroporti e gli aeroporti erano dei luoghi certi, delle città, cioè tu lavoravi in un sociale riconoscibile.

A un certo punto questo tuo transito, questo tuo movimento è cambiato.

Ecco, questo qui è interessante… Tu sai perché è cambiato? A parte che ti puoi essere stancato di essere un artista di critica sociale, un artista tedesco, per tedesco intendendo quella Nuova Oggettività che tanto ti ha appassionato.

Pini — Sì, sono stati amori veri, schietti…

Micacchi — …ancheimportanti e autentici. Però dico, ad un certo punto tu volavi da una città all’altra, cioè tu hai sempre amato il percorso, il transito, ma mentre transitavi sapevi che dall’aeroporto di Roma andavi, magari, a Berlino. A un certo punto questa storia, questo volo sono cam­biati, come se tu fossi andato in orbita; non ci sono stati più gli aeroporti e questi quadri tuoi sono stranamente felici e angosciati, ma tu aderisci a un flusso e non lasci più percepire gli aeroporti, i punti di atterraggio, di partenza.

È un grande movimento che si rifà probabilmente alla coscienza che sempre l’uomo ha avuto come immaginazione della sua vita: questo desi­derio del transito, di muovere le cose, sempre possibilmente molto al di là di quella che era la sua piccola o grande esperienza.

Nei grandi momenti dell’uomo, storici, c’è sempre stata l’idea di siste­mare le cose del mondo per un tempo lungo: vedi le rivoluzioni, vedi le grandi creazioni poetiche che sempre, credo, hanno pensato di utilizzare il presente, ma di cavalcarlo e di dare una soluzione, una ipotesi, o apoca­littica o salvatrice, a un tempo più lungo di quello della durata esistenziale. Allora, ecco, a questo punto tu sei saltato fuori da una pittura più circo­scritta, anche se già molto intensa — c’era già questo aspetto della linea, dell’anatomia, questo fare anatomico che poi ritroviamo nelle pitture di adesso, ma così trasformato —; in questo momento tu hai avuto consape­volezza di questo salto, di questo altro modo di volare, diciamo, di questo non aver più bisogno di atterrare in una città, ma di intraprendere un volo orbitante dell’immaginazione?Pini — Questa consapevolezza m’è venuta dopo, durante il fatto creativo, non prima, cioè quando il desiderio è dilagato ed ho cominciato a sapere che l’aereo con cui avevo preso il volo poteva anche non atterrare più. Micacchi — Non ti ha fatto paura, per esempio, sapere che a un certo punto partivi per un grande viaggio e forse non saresti più atterrato?

Pini — Sì, ho avuto un po’ di panico legato a un elemento di follia. A un certo punto ho capito che anche come pittore avevo difficoltà ad esprimermi. Infatti i miei rapporti con la pittura, con i movimenti storici, sono sempre stati abbastanza scioccanti: non sono mai riuscito ad autodefinirmi. Però, se qualcosa posso distinguere in me stesso, è il bisogno scatenante dell’elemento fantastico, dell’elemento liberatorio, di una possibile libertà che è parziale perché, sia chiaro, se uno fa queste cose, è perché ci sono culture che ha amato, ha visto, ha interpretato. Ecco, questa consapevolezza l’ho avuta nel preciso momento in cui mi sono autoaccettato. Delle barriere, di quelle barriere determinanti o determinate culturalmente, ho cercato di liberarmi: questa avventura wagneriana diviene quindi l’elemento scatenante, il pretesto (e nonostante il mio amore per questo musicista, mi dispiacerebbe la definizione di wagneriano) per giungere alla liberazione anche sul piano di certe preoccupazioni sociali, per cercare di restituirmi completamente a me stesso. E la liberazione diviene anche un modo di raccontarsi questa favola della vita, perché è poi anche la nostra storia personale che tenta di dilatarsi in questa visione, in questa immagine iperbolica delle cose.Micacchi — Ma io penso che in questi tuoi quadri, proprio a livello biolo­gico, tu ti identifichi con l’acqua, col fuoco, col vento e il verde-azzurro è lunare, acquatico, notturno ed il rosso-arancio è solare infuocato e incan­descente.

Da come dipingi questo gran movimento, queste correnti d’aria che non si sa da dove vengono, queste spinte, sembra che tu le viva proprio con un godimento supremo. Cioè a un certo punto è come se tu nuotassi dentro l’idea della pittura ed il dipingere, il modo di dipingere insomma sia un po’ lo stare dentro l’elemento, come star dentro l’acqua: questo sentirsi galleggiare e poi anche nuotare e quindi dominare l’elemen­to, questa sensazione di grande abbandono e di grande liberazione. Ho l’impressione che tu, tutte queste linee, tutto questo grande movimento della linea e tutti questi incredibili colori, te li portavi dentro e solo adesso ti sei liberato. Che il mondo fosse così colorato, così carico di curve l’hai rivelato tu insomma. In queste immagini la natura, come la intendiamo a livello di natura morta o di paesaggio, è cancellata: rivive però come forza germinale che anima tutto, la luce della notte, la luce del giorno, ogni specie di frutta, di piante; e direi che insomma la stessa fantasia, la stessa im­maginazione delle vesti è un modo di scoprire questa forza incredibile che è in te e quindi praticamente nell’uomo, nella sua capacità di dare una immagine del mondo completamente cambiata. Fra l’altro è impressionante come tu senta il mondo così pieno e così tutto in movimento: non c’è voluta che non sia uno stilema, cioè che ripeta qualche cosa che si cono­sca. La pittura, che pure è immobile, è un tentativo di rendere questo flus­so. Io mi ricordo (non c’entra sul piano di una equivalenza formale, ma si tratta di una cosa che mi ha sempre colpito e che adesso mi ritorna in mente per il tuo lavoro e proprio per questo la riferisco, al di là dell’uti­litarismo) che Paul Klee, durante una conferenza, mi sembra a Jena nel `24, parlando dell’artista (di cui fra l’altro diceva una cosa molto dramma­tica e cioè che l’artista non ha popolo) creò una specie di metafora, che trovo molto affascinante rispetto a tutte le altre ipotesi di impegno con cui ci hanno bombardato in questi anni (impegno, disimpegno etc.). Paul Klee diceva essere l’artista un albero che ha le radici — quindi ci sono — e le foglie, che però sono tanto diverse dalle radici. L’artista è quindi come l’albero che si fa trapassare, attraverso le radici, dalle forze della na­tura ed esplode in foglie: stessa materia costitutiva delle radici, ma tanto diversa. Quindi è compito dell’artista farsi portatore di queste forze, farsi attraversare dalle energie della società e del tempo storico. A me è sembrata molto pertinente questa immagine nei confronti dei tuoi ultimi dipinti, perché tutte le tue figure, le tue apparizioni — che ora dovrò con sforzo critico-storico, cercare di collocare a cose già viste — sono tanto diverse da tutto (e quindi, questo sforzo sarà vano): le tue figure sono un “teatro dell’immaginazione” che non rassomiglia a nessuna altra cosa precedente della pittura e non è un risveglio, un revival, una ripresa, ma secondo me, tu hai trovato la forma adeguata per essere un albero, per farti passare da un flusso che senti; hai evitato il modo tuo precedente di dipingere un presente molto circostanziato, — il famoso aereo che atterra in una data città… hai volato più alto. Ma a un certo punto questo presente ritorna come immagine di un grande desiderio, una specie di età dell’oro, di una stupefacente meraviglia della varietà del mondo.

Questo è un grande dono che tu hai fatto alla pittura, qui e adesso.

Il ridarci questa ricchezza attraverso la forma, il colore, questo restituire un mondo estremamente pieno… ma tu senti, in maniera struggente, anche la presenza della morte e quindi praticamente le due cose forse sono inseparabili: questo è, secondo me, un grande carattere di questo nostro presente; forse mai come in questa età — dico età per dire il senso della durata lunga — c’è stato un grande desiderio di una età dell’oro e mai come adesso c’è stata la presenza della morte.

Per cui, praticamente le tue pitture alla fine a me sono parse forme, immagini di questo nostro grandioso e terribile presente, cioè sono molto il nostro presente, come infinito desiderio, come speranza di vita, di colori, di forme, di una espansione della vita in tutti i sensi e che finisce però, così sovente spaventosamente, così orridamente, nella morte. Ecco, questo è un po’ il senso di tutto.

Curiosamente tu sei partito alto, però hai dato una immagine del pre­sente molto più struggente, affascinante, trascinante, ma anche terrifica, di quando andavi sentiero per sentiero nella realtà, nella società, passo passo; volando alto hai preso il senso generale di un movimento del tempo, hai fatto dei quadri niente affatto futuristi ma che sono un transito, un movi­mento verso il futuro delle forme e con questo movimento sei riuscito a dare un’immagine del desiderio, un’immagine anche della presenza della morte; penso che Wagner ti abbia aiutato in quanto tutto questo aveva bisogno anche di una scena. E Wagner con la musica, non con la sceno­grafia teatrale, ma proprio con la musica, è un grande mago della scena, un grande mago della suggestione, un grande deus ex machina che muove il fuoco, muove l’acqua, muove il vento e tutti gli elementi e praticamente fa partecipare tutto il visibile del mondo ai grandi sentimenti umani e mi­schia il cosmo e l’esistenza con la storia, fa fluttuare quello che anche tu hai sentito come flusso. Allora ecco che Wagner è stato un po’ l’elemento che ti ha aiutato a scatenare, ti ha convalidato in quello che sentivi, ti ha reso più libero e sciolto il volo, il passo. Però dico, tu hai bisogno di una scena, cioè di un modo di creare una struttura mobile per i tuoi pensieri.

Probabilmente, come in altro tempo, un altro pittore più realista, quale Géricault ha espresso qualcosa di simile con la “Zattera della Medusa” e, nell’episodio del naufragio, ha trovato un equivalente anatomico cosmico luministico (— e poi quel grande mare con l’orizzonte! —) così probabil­mente penso che tu abbia trovato i tuoi equivalenti pittorici a una situazione del tempo nostro che tu vivi, senti: sei riuscito ad esprimerla non come racconto o illustrazione o giudizio morale sulle cose, una per una, concrete, ma dandole espressione su un percorso che comprende tanti fatti, che abbracciano forse un’intera esistenza, per cui hai cercato, non so quanto consapevolmente, una resistenza delle immagini tue nel tempo lungo. Le hai pescate lontano perché arrivino lontano.

Pini — Mi sembra perfetto. Per quanto concerne proprio l’elemento wa­gneriano scatenante di queste forze… Poteva essere un po’ naif per certi versi. La presenza del mare, quest’acqua: quasi elementare la voglia di de­scriverla musicalmente con quel gorgoglio… (inizio dell’Oro del Reno).

Micacchi — La pittura, una certa pittura di immaginazione, ha bisogno di una scena straordinaria perché, secondo me, la pittura deve avere credibilità sempre, anche quando è la più visionaria. Se tu pensi, certi pittori di grandi visioni, addirittura visioni che riguardavano intere società, hanno sempre avuto necessità di una scena, di essere credibili. Egualmente in musica c’è il problema che quello che avviene, che è tutta immaginazione, sia credibile, sia dato come reale, cioè il fantastico diventi reale e quindi credibile, si possa seguire nel tempo. Così anche la pittura ha uno svolgi­mento nel tempo, nello spazio, ha una costrizione che è la sua grandezza perché se il pittore, l’artista, non avesse queste costrizioni di una superficie e di un certo tempo, andrebbe nel vago o forse la pittura non gli interesse­rebbe più, ma gli interesserebbe soltanto la vita, soltanto un elemento… mentre la pittura è sì la vita, però è anche un’altra cosa, è il superamento, è una sorta di riscatto, di eredità che si consegna — qualcuno ha detto addirittura che è un tentativo, una lotta dell’uomo per superare la morte, per durare al di là della morte (questo l’ha detto Malraux).

Forse è una spiegazione semplice, però di un certo fascino. Probabil­mente il bisogno non è solo quello di durare oltre la morte, anche se a proposito ci sono molte testimonianze. L’ultima, per esempio, strabiliante è il ritrovamento di migliaia di sculture di terracotta di quell’imperatore cinese che ha voluto portare tutto con sé, seppellire (e fra l’altro hanno scavato solo una parte, ancora c’è da esplorare il tumulo dove lui è sepol­to). Questo certo è il desiderio dell’uomo di durare oltre la morte. L’uomo è terrorizzato dall’idea di finire con la morte e quindi crea continuamente piccole e grandi forme di durata.

Non credo però che nella pittura vi sia soltanto questo, così come nella musica. Penso proprio che sia un esercizio dell’uomo, che ne ha provate tante man mano che è cresciuto esistenzialmente e socialmente, e che an­che questo desiderio della pittura sia una sorta di passaggio continuo di una soglia, di un valico, una sfida a se stesso in una continua prova di ciò che non conosce; l’uomo ha scoperto di sapere molto poco e

quindi usa gli strumenti che si è dato come in una continua sfida.

Pini — …per mettere a confronto la sua parzialità.

Micacchi — E poi praticamente questa sfida gli dà la prova di una potenza sempre nuova. Anche se la pittura esiste da migliaia d’anni, il fatto che si rinnovi continuamente e che non si esaurisca e che addirittura una co­struzione pittorica che sembrava fatta… dopo Raffaello, dopo Michelangelo, come si poteva più dipingere? Eppure immediatamente dopo ecco un altro che, magari con una pittura fatta su cavalletto, addirittura ricomincia.

Quindi la pittura è una specie di sfida che conferma l’uomo su questa immensità e lo riporta continuamente alla soglia dell’enigma — quello che de Chirico chiamava l’enigma — cioè a qualcosa che tu più lo provi, più ti avvicini senti che si allontana e poi ogni uomo nuovo che viene con la sua giovinezza, con la sua adolescenza, con i suoi pensieri nuovi, ricomin­cia daccapo. È qualche cosa di misterioso e di inesauribile. Quindi non credo soltanto che sia una questione di durare oltre la morte, è anche quest’altra cosa. Probabilmente a un certo punto della vita l’uomo comincia a pensare: durare oltre la morte. Ma molte cose che produce non sono fatte pensando alla fine, fanno parte di un altro momento e quindi credo che, per esempio, questa tua pittura, pur contenendo anche l’istanza di una durata oltre la morte, appartenga ad un momento più vitale, la sento più come una sfida dell’immaginazione ad andare oltre ciò che l’uomo già conosce.

Quando il quadro si realizza conferma che la sfida valeva la pena, che era proprio il caso di farla perché ha portato una quantità di cose che pri­ma non c’erano e che ora puoi toccare, sfiorare con lo sguardo, sentirne i rumori, i suoni, l’odore.

Ecco quest’altro elemento del gusto, del piacere che ha l’uomo nel veder nascere, accanto al mondo reale degli oggetti, un altro mondo, quello dell’immaginazione e non soltanto sognato e impalpabile, ma consistente, realizzato: ecco la pittura dipinta, la scultura scolpita, l’architettura archi­tettata: da tutte queste cose, dalla concretezza dell’oggetto artistico l’uomo risulta rinsaldato nei suoi pensieri. Da ciò la necessità di rientrare in certe regole, in certi obblighi. Altrimenti varrebbe la posizione della concettualità pura che qualcuno ha anche predicato e praticato e pratica, soprattutto in alcune filosofie orientali che navigano col pensiero non legandolo alle cose.

Insomma il tuo procedere è nel modo umano della civiltà di un certo tipo, chiamiamola occidentale, per capirci. Mi sembra che sia nello struttu­rare questo flusso dell’immaginazione la concretezza poetica. Cioè la poe­sia non come, inafferrabile, ma sempre come oggetto, afferrabile. E questo mi fa pensare ad una osservazione di Marx: dice che l’oggetto è diventato umano quando l’uomo l’ha sentito… non so, un sasso, una pietra, chissà quale momento magico sarà stato quando per la prima volta l’uomo ha fissato un oggetto in un certo senso, pensando di usarlo, di farne una cosa fatta da lui, ma altra da sé e Marx dice che l’oggetto è diventato umano quando l’uomo lo ha guardato come oggetto sociale umano, nel momento in cui è scattato questo meccanismo.

C’è stato un momento, alle origini, in cui l’uomo ha praticamente sepa­rato da sé, pur utilizzandole socialmente ed esistenzialmente, certe cose —una pietra, un certo colore per dipingere il corpo al momento della caccia, — che comunque attraverso un processo d’uso e di creazione sono diven­tate oggetti sociali umani, cioè lo sguardo dell’uomo ha cominciato a per­cepire, a sentire certe cose, come sociali umane e probabilmente qualcosa di questa sfida lo ha portato a costruire un mondo non solo del necessario a sopravvivere, ma ha dato largo spazio a qualcosa che è ricchezza, lusso.

Per esempio questi tuoi quadri sono di una ricchezza incredibile. Ed io mi domando, ma a che cosa mai servirà tanta ricchezza? Addirittura i tuoi quadri mi sembrano incredibilmente avanti, considerato che siamo in un momento talmente accanito, disperato socialmente ed in cui tale di­sperazione nasce dal voler possedere, materialmente, gli oggetti, il denaro: e, invece, questi quadri alludono ad un’altra ricchezza, fanno sentire che la vera ricchezza è un’altra cosa; praticamente tu non possiedi niente, però sei in grado, in una superficie di due metri quadrati di far sentire questa incredibile ricchezza che l’uomo può usare, che ha, per natura, a disposizione.

Quella ricchezza che nasce dall’immaginazione della creatività umana e che non ha alcun paragone possibile con quella che deriva dalla proprietà degli oggetti; così, probabilmente, tu hai sentito — non so se questo si può dire, ma lo dico lo stesso perché prepotentemente mi viene di dirlo — che questo è un tempo in cui l’uomo si riconosce non tanto nel chiarimento di ciò che egli è, del suo essere, ma in quello che possiede e da qui la delirante importanza della grande quantità di oggetti di cui ha bisogno, di cui si circonda. Penso che i tuoi dipinti siano sfuggiti a questa falsa oggettività del tempo nostro, scattando in quella direzione dell’immaginazione e proponendo un’altra oggettività e un’altra visione, un mondo estremamente ricco, che identifica la propria ricchezza in qualcosa di diverso.

Pini — Direi che la tua interpretazione mi libera da certi schemi, da certe accuse che mi vogliono pittore decadente: la tua interpretazione invece, dando nuova vita e vigore alla mia posizione, rende chiara la differenza: c’è un superfluo passivo che è quello degli oggetti e c’è un superfluo attivo che è quello della ricchezza interiore. C’è insomma tutto uno spazio da scoprire…

Micacchi — Penso che su questa questione, cioè quale sia la vera ricchez­za, a parte il bisogno fondamentale dell’uomo di soddisfare certe esigenze come il mangiare, dormire, star coperto, esser sano, vi sia un grosso equi­voco: che cosa è la ricchezza umana? Direi che questa società degli oggetti, il capitalismo di questo tipo, ci ha veramente imbestialito, ha cambiato l’obiettivo dell’uomo. Probabilmente più di un artista nel suo lavoro, nei tempi moderni, da quando è nata la capacità dell’uomo di fabbricare con l’industria gli oggetti, ha lavorato con l’immaginazione, quasi a compensare, a restituire quella dimensione che si stava perdendo; ora noi siamo arrivati infatti proprio ad una sorta di sostituzione dell’immaginazione tramite quei “meravigliosi” oggetti sofisticati, capaci di darci le cose più incredibili, sia come suoni che immagini i quali però nello stesso tempo rendono l’uomo un essere privo di capacità personale di praticare l’immaginazione. E così l’uomo ha degli apparecchi attraverso i quali altri attivano i suoi processi. È quindi una immaginazione controllata, manipolata. Tra l’altro ci hanno messo in testa la concezione, tipica di questi ultimi decenni, che l’uomo è uomo in quanto ha e più è, più oggetti possiede e questo, addirittura a livelli elementari, l’ho rivissuto, l’ho sentito, ascoltando discorsi di gente che viene da questi incredibili paesi, che sono i paesi arabi, del petrolio, dove la gente ha una ricchezza di cui non sa cosa fare, si circonda di tutti gli oggetti più straordinari. È curioso come anche qui sia giunta questa corruzione, come anche questa gente identifichi ormai la felicità, il senso umano dell’essere con il possesso delle cose. Le automobili, gli apparecchi, i mobili, i marmi, i dollari, l’oro tutto in una sorta di caricatura della cultura, perché anche chi ha costruito le cattedrali si è servito dei marmi, ma con una grossa differenza… perché c’era la funzionalità, perché sulle cattedrali si arrampicava l’immaginazione e quindi servivano da strutture portanti. Penso che in questa prima seduta abbiamo detto qualcosa di interes­sante, probabilmente potremo aggiungere tante altre cose, anzi credo che dovremo continuare questo dialogo visto che ci siamo trovati d’accordo su molti pensieri, ma per oggi possiamo finire.

Pini — Anche perché trovo la chiave interpretativa, che hai dato al miolavoro, giusta e liberatoria da tanti schemi che spesso mi hanno oppresso.

Micacchi — Dovremo continuare per precisare di più, per essere ancora più concreti; è importante comunque che alcune questioni, che sentivo es­senziali, io le abbia dette, magari in maniera caotica, e che tu abbia trovato tali riflessioni non al di fuori della tua ricerca, ma rispondenti al tuo pensiero.

Micacchi — Caro Giuliano, nella nostra prima conversazione abbiamo de­dicato molta attenzione a idee, sentimenti, presente e passato, ad un volo alto rispetto ad un volo a tappe obbligate; abbiamo usato la metafora dell’aereo ed abbiamo detto che hai fatto un volo alto che ti ha portato, ti ha permesso di dare una immagine del presente, più presente che se avessi percorso le tappe passo a passo, fatto per fatto, accadimento per accadimento, fenomeno per fenomeno. E risentendo questa prima parte del colloquio, proprio stamattina, per una volta ancora, m’è sembrata no­tevole e ciò mi ha confermato l’idea di pubblicarla così, come è venuta.

Vorrei però aggiungere ora una parte più tecnica, intendiamoci, non didattica magari noiosa, per cercare di riuscire a dir qualcosa sul come la tecnica riesca a trasferire su una superficie piana tutto questo gran movi­mento di passioni, di idee, di sentimenti, avendo la pittura, rispetto a tutte le arti questo elemento straordinario, ma così pesante, che è la materia; non solo la materia ed il supporto, di cui tante ricerche della pittura d’oggi hanno parlato e di cui hanno valorizzato la qualità, ma la materia che, per via del segno, del colore e anche attraverso il processo degli acidi e degli inchiostri, può darci in immagine tutto questo magma.

Abbiamo parlato, mi ricordo bene, di acque, di vento, di fuoco che sono in te e che tu traduci in immagini. Allora dico che bisognerebbe far capire o almeno tentare di esplicare come questa acqua, questo vento, que­sto fuoco, tutta questa metafora dei sentimenti, delle passioni, del presente, diventano pittura, diventano immagini. Partirei da due parole sintetiche, una sorta di binario, su cui alla fine è andata la nostra conversazione. Più volte, risentendola, ho sentito la parola scatenamento, riferita all’elemento musicale wagneriano, sempre accompagnata dalla parola liberazione. C’è quindi una potenza che accende, che scatena, che dà l’avvio a qualcosa che esiste già e nello stesso tempo mette in moto un processo di liberazione. Allora riallacciandomi a questi due elementi, scatenamento e liberazione, cerchiamo di vedere come, nel fare concreto della pittura, tu parti, dal supporto su tavola, come senti questa sensazione e come riesci a trasferirla e come, in che misura, in quale momento del lavoro ti accorgi che lo scatenamento si traduce, si trasforma in liberazione.

Pini — Questo accade nel momento pre-finale del quadro. Il momento primario è quello del disegno che è molto curato. Praticamente sulla tavola faccio un disegno…

Micacchi — Come se tu lo portassi quasi all’autonomia totale…Pini — Perfetto, lasciando naturalmente certe cose, non portandolo pro­prio alle estreme conseguenze in quelle zone dove poi so che interverrà la pittura come linguaggio autonomo. Dunque parto e disegno, un disegno esatto e ricco come intelaiatura e mentre stendo queste campiture, c’è già il sentimento finale… racconto la favola a me stesso, una specie di autorac­conto, di dialogo interno: sono l’interlocutore che dà anche le risposte. Poi riempio il quadro con i colori base, i colori vengono come incastonati all’interno della struttura disegnativa ed ecco avvicinarsi il momento… aspetto che l’olio asciughi — sai, io dipingo con colori ad olio — perché c’è già molta materia, l’incastonatura è ricca, è densa, la materia è tormen­tata con il pennello: cerco di muoverla sempre. Ecco che il movimento comincia a nascere…

Micacchi — Muovi la materia per muoverla, nel senso che ti dà piacere questo magma in formazione o tu hai già un sistema di ombre, di linee, un flusso secondo il quale la distendi?

Pini — Il disegno è sempre abbastanza obbligato. Poi quando il quadro è già tutto riempito ed il colore è secco, ecco, in quel momento lo distruggo in una sorta di violenza improvvisa; e torno di nuovo a dipingerlo e, per esempio, per avvolgerlo nell’atmosfera notturna, penso alla notte e con stracci intrisi di celesti, di azzurri, di verdi, lo assalgo.

Arrivo ad un momento in cui abbraccio il quadro, lo sento e vedo tut­to. E questo è già un momento di liberazione. Poi si passa ad una fase di ripiegamento: il momento della liberazione si riassorbe in una pausa: si tratta ora di ritirare fuori la struttura e lo ridipingo un’altra volta. In questa fase il quadro è come sospeso, a questo punto il quadro è fiacco, tutto quell’abbraccio, quella invadenza primaria…

Micacchi — Tu come spieghi questo fenomeno di indebolimento?

Pini — Indebolimento perché l’energia che avevo tentato di mettere con questo primo assalto viene meno e ritirando fuori certe cose, affiora il disegno… ritorna fuori l’incastonatura primaria. Ma c’è già una certa atmosfera…

Micacchi — E allora, come ne esci fuori?

Pini — Ne esco fuori con il ritmo. Purtroppo non so leggere la musica, però questo è l’aspetto musicale… Ad un certo punto incomincia la scan­sione. È questa la fase astratta del quadro. Voglio dire che non ho schemi per convogliare l’energia, l’energia pittorica. Ad un certo momento il ritmo che mi porto dentro comincia la scansione: è una fase molto difficile, dav­vero molto difficile, infatti poi alla fine del lavoro ho le mani indolenzite, perché è lì, in quella fiamma: accendo una cosa… alla destra del quadro va bene ma è in un altro punto che ha un richiamo. Ed allora è tutto un fatto di ritmo, fino all’ultima velatura. E poi è paradossale come, un quadro di due metri, non ti torni perché in un angolo lontano non c’è quel ritmo, quella scansione non gli è stata data ed allora è fiacco. Sei stanco e non riesci ad individuare il punto debole ed allora c’è il ricorso all’occhio dell’amico, del conoscitore profondo del tuo lavoro. (spesso fac­cio appello a queste consultazioni). Magari poi ti dicono: è bello, va bene… Invece no. Lì per lì ti consoli che sia vero. Ma poi ti alzi, di notte, vai a rivederlo e ti accorgi che non va bene.

Quello che ho imparato dalla musica è questo; purtroppo non la so leggere, ma le scansioni, e i ritmi interni li sento.

Micacchi — ; va bene, tu non sai leggere la musica, ma sai leggere la pittura quindi ti servi di equivalenti: navighi con la nave tua sul mare, però ogni tanto alzi gli occhi al cielo a guardare le stelle. Penso a tutti gli artisti autentici, ma direi anche a tutti gli uomini in azione, che fanno un lavoro qualsiasi, magari il muratore — che per me è un uomo magico, per come riesce a tirare su un muro — e vedi per esempio c’è tutta l’ar­chitettura… (il cotto dell’Emilia, e non solo dell’Emilia, ma anche della Lombardia) che poi è finita in Russia, è finita in tanti paesi, ma è sempre la stessa architettura che già usavano i romani, questa architettura gigantesca (mi ha sempre riempito di stupore la capacità di tirar fuori da quelle formelle tutte eguali dei muri enormi, come andassero su, come seguissero il progetto, l’energia della struttura pensata) insomma, ritornando, un po’ a tutti gli uomini che si confrontano con qualche altra cosa e possono essere le stelle possono essere cose minori. L’elemento che ti porti lo chiamerei ”il cimento”-usando la parola cimento come la usavano i musicisti come Vivaldi ed altri del Settecento. E in te è un cimento con un’altra cosa che probabilmente non è la musica, ma questa rimane sempre importante proprio per le scansioni, per i timbri, per i toni che tu senti, apparentemente nel mistero e che ti aiutano a riconoscere in te stesso certi sentimenti o strutture musicali.

Se tu non l’avessi cercato nella musica probabilmente lo avresti cercato nella letteratura e magari quindi la tua pittura avrebbe avuto delle scansioni più pertinenti alla parola, più letterarie; oppure lo potevi cercare nella politica e trovare delle scansioni, dei ritmi ideologici, o addirittura per esempio nello sport. Mi sono meravigliato a Parigi, alla Mostra Paris-Moscou sull’arte dal 1900 al 1930, rivedere un pittore come Casimir Malevic, che prima è stato un pittore di tipo contadino-agricolo-cubista, compositore per larghe masse, volumi molto taglienti, con una figurazione tattile, molto provocatoria, e poi è stato lo straordinario pittore che ha percorso il cammino da Cézanne al Suprematismo, poi ha fatto delle astrazioni favolose, fino al bianco su bianco. Ecco ho avuto la sorpresa di ritrovarlo in un quadro, del 1928­1930, curiosamente figurativo, ma con un ritmo, una scansione interna che derivava dalla precedente astrazione e nello stesso tempo da un interesse per lo sport. C’era un quadro, tutto orizzontale, costituito per bande di colore, di un grande fascino, dove su una di queste bande, sulla linea orizzontale, molto orizzontale, c’è una cavalcata della Cavalleria rossa, come delle formichine lontane. È un quadro di una suggestione incredibile; poi ce n’era un altro con degli atleti scanditi come una scacchiera, dove appunto l’immagine è costruita sullo sport.

Questi ritmi e scansioni che tu hai detto di seguire nel quadro, l’operazione che tu fai, è sempre consapevole in tutti i suoi momenti o magari si realizza, in piccola o in gran parte in maniera inconsape­vole e tu ne hai la coscienza, l’illuminazione quando hai quasi dipinto la totalità…?

Pini — È dopo.

Micacchi — Quindi ubbidisci a una specie di flusso che è dentro di te… Pini — Che probabilmente si organizza a mia insaputa e non mi mette subito al corrente, organizza a livello inconscio questo magma ricco e com­plesso che è dentro di me. Poi viene fuori piano piano e la consapevolezza l’ho soltanto a lavoro finito.

Micacchi — Un aspetto che può sembrare minore, ma secondo me è nel tuo lavoro conseguenza e sviluppo della sensibilità per il segno, è il tuo aspetto di incisore. Tu sei un incisore molto particolare ed originale. E qui mi sembra che nell’incisione ci sia qualcosa… c’è quello che c’è nei dipinti, nei disegni e c’è anche qualche altra cosa. Lo sento come sviluppo di quell’elemento analitico e di lezione di anatomia, nel senso usato dai tede­schi antichi e da Rembrandt, di indagine sulla forma e anche di una messa a nudo, — direi crudele, spietata — dei sentimenti, che già era nel tuo passato più lontano di disegnatore e di incisore “tedesco”. Ecco, mi sem­bra che l’incisione per te rappresenti un momento molto speciale, anche in questa fase, diciamo musicale, che stai attraversando. È vero questo o no?

Pini — Sì è molto vero. È vero anche perché il rapporto con la lastra è un rapporto diverso da quello con la tavola, sia disegnativa che pittorica. In questo caso c’è una sorta di sudditanza; il gesto si placa, si fa più capzioso… Poi non mi considero un incisore perché come ti ho detto, per me i grandi incisori sono quelli che hanno un rapporto con la lastra molto più libero mentre io tento di trasferire le idee della pittura, le idee del disegno… e anche perché sulla lastra non si può troppo cancellare, correg­gere, ed allora probabilmente torna fuori questa capziosità, questo

aspetto analitico. Sono un po’ condizionato dalla paura di sbagliare. Poi non è che la ami particolarmente. Faccio le incisioni perché sono anche un mezzo divulgativo, per far conoscere il proprio lavoro a molta gente… sono dei multipli.

Rimango affascinato però dalle lastre di Vespignani e mi stupisco a vedere tutta questa libertà, padronanza del mezzo.

Micacchi — Penso che questo sia vero; tu hai posto dei se e dei ma sul tuo lavoro di incisore, però quelle tue lastre che conosco ed anche queste più recenti mi sembra abbiano dei risultati di grande lirismo e di perfetta incisione.

Pini — Probabilmente, dedicandomi di più, qualche anno; se potessi dedi­care un anno a questo tipo di ricerca potrei acquisire una libertà maggiore. Quello che, mi dà proprio noia è la sudditanza alla lastra cerata… invece, buttare giù un quadro, incominciare a disegnare, prendi il bianco, lo can­celli, lo rifai… Mi riporta, questo è abbastanza curioso ed interessante, un po’ alle cose mie vecchie, mentre ora, grazie a Dio, tutti questi anni di lavoro a qualcosa sono pure serviti… a questa libertà: ora quando strutturo un quadro, anche da un punto di vista disegnativo, subito lo blocco in tre o quattro elementi che poi so racchiuderanno l’immagine. Ma prima ero capace, non so, in un quadro di due metri, di partire, da una parte, da un occhio, da un naso, tutto era in me, però se quell’occhio, quel naso non erano come volevo… ecco, nella lastra sono ancora un po’ a quello stadio. Quindi è giusto quello che dicevi te, che in qualche modo richiama il lavoro precedente. Ma perché il mio atteggiamento di fronte alla lastra come supporto, forse è ancora quello di molti anni fa.Micacchi — Mi sembra un’autocritica assai analitica ma anche crudele. Giusto: prendiamo consapevolmente ed esattamente le misure di tutto: mezzi, materie, ecc… ma non facciamo come quei geometri che per misurare l’altezza degli alberi non vedono la bellezza del bosco.

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