Dario Micacchi

“2 amici, 2 artisti” Presentazione in catalogo mostra 1989 a La Soffitta – Sesto Fiorentino, Comune di Piombino, Galleria Il Vicolo – Cesena

Dove finisca la figura e dove cominci il ritratto non è facile dire quando si mettono assieme uno scultore, Gian Carlo Marini, e un pittore, Giuliano Pini, pure creatori di immagini così stupefacenti e tipicamente diverse ma entrambi dotati di uno straordinario occhio analitico capace di scandaglio nella psicologia profonda del tipo umano come pochi altri oggi nell’arte italiana – e se fosse per il solo occhio analitico si potrebbe anche dire che per loro fare un ritratto è cosa abbastanza naturale – ma che proprio dalla potenza analitica dell’osservazione e dello scandaglio derivano quella loro strana, ora sensuale ed erotica ora furente e accusatrice, potenza di controllo e di manipolazione tecnico-formale che fa lievitare la materia nell’immaginario, nel visionario.

Si potrebbe pensare, anche per loro, che il chiarimento decisivo circa la figura o il ritratto possa essere data dalla committenza, dall’occasione ba­nale o eccelsa dell’incontro sentimentale e rivelatore tra il possibile progetto-ricerca di Marini e Pini con un tipo umano assai particolare per anatomia e per psicologia. Oppure che Marini e Pini abbiano così ossessivamente davanti/dentro di sé, per giorni e giorni, un tempo lungo insomma, un certo tipo umano familiare vivente e agente sotto i loro occhi o anche soltanto un tipo plastico della tradizione artistica, antica o moderna, che fa da lievito segreto al presente, che divenga per loro cosa naturale e spontanea fare un ritratto. Questo sarebbe possibile farlo con la fotografia. È stato possibile dai giorni di Nadar. Ma Gian Carlo Marini e Giuliano Pini, oltre la potenza analitica di osservazione e di scandaglio, hanno in comune modi di figurare che possono anche essere ricondotti a una modernissima arte della realtà; però quel che caratterizza a fondo le immagini e le fa tipiche e inconfondibili non è mai strettamente la somiglianza, che pure può essere straordinaria, ma la qualità enigmatica che viene impressa alla forma. Co­me dire che il ritratto non è mai un calco dal vero, pure strabiliante per ese­cuzione, ma il ritrovamento e lo svelamento, prima di tutti all’artista, poi al tipo umano del ritratto e, infine, all’osservatore, di una identità umana segreta, nascosta, sepolta nella massa dei tipi umani.

Il processo dello svelamento dell’identità è un percorso assai complesso che ora procede alla luce del sole ora si inabissa, quasi fosse un fiume car­sico, nella storia delle forme artistiche antiche e moderne, senza per que­sto dover fare sfoggio di citazioni o di aura colta. Potrà essere Donatello, Desiderio da Settignano, Antonio Rossellino, Benedetto da Maiano o il ri­tratto romano dei provinciali di età imperiale per Gian Carlo Marini. Potrà essere Botticelli, Grünewald, Cranach e gli amatissimi moderni Schiele e Dix per Giuliano Pini. (il pittore, poi, ha un modo tutto suo e soltanto suo di trascrivere musicalmente secondo un particolare flusso le qualità del co­lore e delle linea). Ma intenda bene il lettore e il visitatore di questa mostra che non si tratta di nostalgia del museo o di assemblaggi più o meno riu­sciti con un attuale anacronismo di frammenti d’una bellezza antica secon­do una moda oggi dilagante. Più semplicemente, o se volete più profonda­mente, sia lo scultore sia il pittore ritrovano sul loro percorso di riscoperta e di svelamento dell’identità di un tipo umano certi artisti antichi o moderni che, per un tratto, han fatto anche loro quel percorso. Noi tutti viviamo una civiltà di massa e ci confondiamo nei riti e nei consumi di massa: perdono identità non soltanto singoli individui ma gruppi sociali e, a volta, intere po­polazioni. Ecco perché parlavo di una qualità enigmatica per Gian Carlo Marini e Giuliano Pini in quanto riscoperta e svelamento di identità umana. Oggi, forse, si possono guardare in un altro modo i manichini di Giorgio de Chirico e si può leggere chiaramente quella famosa, ma tanto poco ca­pita, scritta che il grande Metafisico pose sotto un autoritratto: et quid amabo nisi quod aenigma est? La riconoscibilità dell’identità umana e la sua durata nel tempo oggi sono sempre più un enigma e quanto più i muta­menti tecnologici e sociali sono rapidi e di massa.

La modernità e la grandezza poetica di Gian Carlo Marini e di Giuliano Pini, nel contesto dell’arte italiana attuale così ricco ma anche così inestrica­bilmente aggrovigliato, stanno proprio nella consapevolezza di tale enig­ma e nella poetica, ossessiva ricerca ed esperienza dell’identità umana in una civiltà di massa che, qui e ora, fanno.

Ogni scultura e ogni pittura loro stanno nel gran flusso storico ed esisten­ziale del presente nostro ma allo stesso tempo cercano di farsi masso o ciottolo ben riconoscibile dentro il flusso. Così, quando creano una figura dentro una immagine di sogno o visionaria, questa figura finisce per rias­sumere in sé tanti e tali caratteri che, a guardarla, per quanto originale e straordinaria sia nelle forme e nei colori, si è certi di conoscerla, di averla vista in qualche tempo e in qualche luogo che magari non ricordiamo. Quan­do, invece, fanno un vero e proprio ritratto sia reale sia immaginario cari­cano il tipo umano di un’energia che soltanto in minima parte gli appartiene sentimentalmente e socialmente e in gran parte è una carica immaginaria ed eversiva che dà al tipo umano una tensione che segna a fondo disegno, colore, massa, volume, materia e fa «decollare» l’immagine che appare tanto concreta in un grande desiderio di liberazione che è, poi, nel profondo, il desiderio di ritrovamento di sé: a tal punto che noi che guardia­mo veniamo conquistati da tale desiderio che anima tutta l’immagine e sen­tiamo che esso è la chiave che può aprire l’enigma dell’immagine stessa, il suo fascino segreto e crudele, la sua struttura culturale/linguistica fatta di tanti spessori. Gian Carlo Marini come scultore e Giuliano Pini come pit­tore dominano la materia dell’immagine con una naturalezza che quasi sem­pre riesce a portare all’evidenza tattile la psicologia profonda del tipo uma­no. Clamoroso, poi, è l’effetto poetico quando il ritratto, già nella dichiara­zione d’intenti, è un ritratto immaginario d’una creatura che viene dal pas­sato e da una prefigurazione: la creatura del ritratto immaginario può essere letteraria, musicale, pittorica ma è fatta vivente, è chiamata a vivere nel presente, carne e sangue, addirittura nel quotidiano. Equi scatta un’altra ragione profonda della vitalità delle figure e dei ritratti scolpiti da Gian Carlo Marini e dipinti da Giuliano Pini: la memoria e la coscienza lacerante che la memoria è lievito al presente/futuro degli uomini. Certo, l’uomo, e l’uo­mo/artista, può desiderare di non avere più memoria, per sue intime ragioni esistenziali o storiche, ma la memoria continuerà a lavorare nel profondo, ad essere attiva, a dolere come una ferita. In un ciclo pittorico dedicato a Wagner, Giuliano Pini ha dipinto Amfortas e la sua ferita che mai chiude. Ma ci sono altri segni/ferite nei suo quadri visionari, anche quelli dedicati a Gades e al flamenco.Equante ferite ci sono negli stupendi volumi levigati delle terracotte e dei bronzi di Gian Carlo Marini!

L’evidenza tattile del profondo si dichiara nel corpo e nell’anatomia che, in Pini, sembrano spesso celati da grandi vesti ma, in realtà, vengono am­plificati nella potenza del gesto nell’eros e nel dolore; e, in Marini, invece, sembrano esaltati da iperboli muscolari, giunture fantastiche dei capelli sulla pelle, tensioni e strappi della pelle o suoi fantastici legami da arto a arto, viluppi di lenzuola come nelle stupende immagini di coppia e nel sublime «Sogno» del 1980 (scultura che ha, come qualche altra, affinità con le forme di un Finotti ma è surreale senza essere surrealista). È assai curioso, sia nello scultore sia nel pittore, che il ritratto, pure nella concentrazione dei caratteri del volto, faccia sempre sentire la presenza del corpo. È im­pressionante, sia in Marini sia in Pini, la mobilità psichica che hanno i volti anche quando slargano al massimo dello stiacciato anatomico: sono en­trambi fantastici disegnatori ma il movimento non è parallelo alla superfice del dipinto o della scultura bensì viene dall’interno verso l’esterno e si po­trebbe dire che l’anatomia, così come la pittura e la scultura la intende, è la visualizzazione di un interno, e che il pieno e il vuoto delle forme sono aggetti e cavità del profondo. Un tale giuoco plastico così grandioso tra in­terno ed esterno io l’ho visto soltanto in ritratti di lpoustéguy, di Manzù, di Perez e di Guerreschi. Gian Carlo Marini plasma la terracotta colorata con una sensualità volumetrica e una qualità sognante dei colori che nemme­no il primo Leoncillo delle Stagioni, dell’Arpia e del San Sebastiano possedette.

Lo scultore è così padrone dei suoi mezzi che fa dimenticare il processo che lo porta non a rifare naturalisticamente o iperrealisticamente un volto o un corpo bensì a dare di quel volto e di quel corpo il senso vitale, il respi­ro, la durata nel tempo lungo ben oltre quel confine della vita che può es­serci, improvviso, prima o poi. Dal «Ritratto di Franca» del 1975, che è pre­ceduto da una nutrita serie di figure e di ritratti di uscita da un cupo e grot­tesco espressionismo tecnologico e un po’ fantascientifico, Gian Carlo Marini dà il via, in una progressione stupenda, a una serie di ritratti e di figure-ritratti di coppia che trapassano sempre in sogni o visioni a volte quasi ali­tassero uno spasimo; e che segnano la conquista di un massimo tattile, nella volumetria e nel trattamento levigatissimo e colorato della superficie, dell’evidenza della psicologia profonda del tipo umano. E si può dire che lo scultore riesca soprattutto nelle teste femminili dove anche il tipo umano più quotidiano acquista un non so che di emblematico, di regalità umana che buca il tempo, il dolore e le sventure. Mi vengano in mente tanti disegni che fece Henry Moore di figure umane rifugiate nelle metropolitana di Londra sotto i bombardamenti nazisti e che, pur avvolte come mummie nelle bende-abiti, avevano sempre un che di regale, di molto umano non vinto, non piegato.

E ancora, mi tornano in mente quelle icone che gli egiziani/romani del Fayum dipingevano e mettevano sulla mummia al posto del volto: i grandi occhi sgranati, orecchini e collane in vista, con una vitalità impressionante per­ché quell’icona sulla mummia doveva continuare a vivere tra i viventi nella casa. Il ritratto quando non si annichilisce nel verismo è sempre un’icona che sfonda il tempo e lo sfida nella durata umana almeno fin quando i ma­teriali durano.

Gli antichi gran cultori di statue e ritratti apologetici ne avevano anche un sacro terrore perché distruggevano rabbiosamente le effigi bronzee del ti­ranno poco tempo prima adulato e divinizzato.

I ritratti di Gian Carlo Marini hanno una loro «sacralità» e si fanno amare per la loro integrale umanità che emana dalla forma sia l’eros sia il dolore: ora è un’acconciatura dei capelli, ora dei fiori, ora una ruga, ora una piega della pelle, ora uno sguardo ansioso nel volto che la scultura ha fatto bel­lissimo. Un po’ così, e con un mezzo povero come il pastello, Rosalba Car­riera ci ha lasciato nel Settecento una folla di tipi umani superbi o dolenti, un po’ di tutte le classi e un po’ tutti ignari di quel 1789 che si preparava a Parigi. lo non so cosa si prepari per tutti noi ora che si fa un gran parlare di magnifiche sorti e progressive fatte di elettronica e di computer sempre più intelligenti. Ma la dolcezza e la melanconia e il desiderio di liberazione dei ritratti e delle figure in coppia di Gian Carlo Marini mi mettono in guar­dia. E così, con altri modi poetici, mi parlano di un uomo non liberato, an­sioso, melanconico, forte, sì, dei suoi desideri e della sua energia di libera­zione, i ritratti di Giuliano Pini. Per lui, sotto i carboni e la cenere del pre­sente, ardono i volti di due altri pittori tanto amati: l’autunnale Egon Schiele che vide la «finis Austriae» e il rivoluzionario Otto Dix che non vide la rivoluzione spartachista.

Due Grandiosi e anche feroci pittori del corpo e del volto e di uno sfalda­mento inarrestabile, tale da dare un’angoscia che fa crepitare l’anatomia come rami nelle fiamme.

Il Pini ultimo dei ritratti, anche quelli di Antonio Gades e della sua grande partner e di alcuni carissimi amici, sono improntati a una calma fissità; ma è come se il volto avesse aperture che lasciano intravedere al di là un tra­mestìo infernale. Comunque, nei ritratti, Giuliano Pini ha abbandonato il mare mosso dalle grandi onde dei quadri musicali tra Ciaikowskij, Wagner, Malher e il flamen­co. È come se il gran flusso musicale lo avesse gettato su una riva aspra, contro un alto muro davanti al quale stanno immobili alcuni volti cari con una serietà impressionante, quasi murati a stele, nella loro psicologia co­me lo erano i ritratti e gli autoritratti di Giorgio de Chirico negli anni venti. Si può anche rifare il percorso di Giuliano Pini fino a questo muro, partendo dai ritratti così esuberanti e energici dell’amico pittore Daniel Bec, del violoncellista Tortelier, del poeta Alfonso Gatto e del pittore Sergio Vacchi che hanno l’azzurro del cielo negli occhi, di Alessandro con le ciocche di ciliege alle orecchie.

Con lacerti di rosso incendiato e di verde abissale e trasparenze azzurre mediterranee di occhi, Giuliano Pini è arrivato al muro dove lo attendevano silenziosi i suoi pittori, i suoi poeti, i suoi musicisti, i suoi amici cari: hanno tutti gli occhi ben sgranati sul mondo e senza panico; ma non hanno rispo­ste, hanno ancora soltanto domande. Il possente, vorticoso moto della linea che aveva preso in un trascinante flusso le figure di Giuliano Pini, e c’è stato un lungo momento che il vortice girava su tempi musicali, è caduto come cade un vento.

Ora ci sono questi cari volti, più o meno segnati dal costo altissimo pagato per restare umani, che ti fissano con gli occhi ardenti e inquietanti (con­frontate gli occhi dipinti da Pini con gli occhi scolpiti da Marini e resterete sorpresi dell’affinità sentimentale). Potrà sembrare strano, ma il desiderio di liberazione irrealizzato e le domande che portano tutti questi ritratti di Gian Carlo Marini e di Giuliano Pini mi hanno richiamato alla mente, con una sensazione dolorosa, quel passo dell’Ebdomeros di Giorgio de Chiri­co, che è del 1929, dove in riva a un lago, dopo che per le ville sotto gli alberi è passato uno scultore pazzo che ha fatto a pezzi i vecchi pietrificati ma ancora con le arterie in vista sotto la cute-pietra, Ebdomeros mostra agli amici un punto del lago, segnato da un boa vermiglione, dove nessun scandaglio era mai riuscito a raggiungere la profondità. Qui la Metafisica si congedava dalla pittura moderna. Daccapo, siamo forse noi su una riva davanti alla stessa profondità insondata?

Dario Micacchi

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